L'analisi del G

Da Obama a Biden: sull'Iran gli Stati Uniti (e l'Occidente) pagano 15 anni di errori

L'attuale presidente americano ha ereditato dal predecessore strategia e negoziatori sbagliati. E l'inadeguatezza Usa ha consentito agli ayatollah di scatenare le milizie sciite nella regione

Da Obama a Biden: sull'Iran gli Stati Uniti (e l'Occidente) pagano 15 anni di errori

Robert Malley, vecchio amico di Obama dei tempi di Harvard, fu scelto come consigliere nella sua campagna presidenziale e come componente della squadra di negoziatori per l'Iran. Fu anche smascherato molto presto, durante la prima campagna di Obama, quando il 9 maggio 2008 il Times di Londra rivelò che aveva parlato con Hamas, un'organizzazione terroristica non così famosa come lo è ora, ma già inserita nella lista nera, il cui statuto prevede non solo l'espulsione, ma lo sterminio della popolazione ebraica di Israele. Fu forzatamente escluso dalla campagna, ma la fiducia di Obama in Malley non venne meno. Tanto che fu introdotto prima alla Casa Bianca come consulente, elevato poi al rango di assistente speciale e infine scelto come principale negoziatore degli Stati Uniti con l'Iran. Obama aveva finalmente un funzionario che avrebbe portato avanti senza sosta entrambi i lati del suo piano, la riconciliazione e il disimpegno.

Anche dopo aver lasciato l'incarico, Obama ha imposto a Biden Malley, il quale è stato prontamente nominato «inviato speciale» in Iran il 28 gennaio 2021, mantenendo tale posizione fino alla fine dell'aprile 2023, quando la sua autorizzazione di sicurezza è stata revocata. Il fatto che la notizia sia arrivata per prima da Teheran è di per sé rivelatore: tra i collaboratori iraniani di Malley a Washington c'erano anche simpatizzanti della Repubblica islamica, una posizione che non è certo quella abituale degli esuli iraniani.

L'accordo che Malley aveva supervisionato nella sua precedente apparizione come funzionario di Obama per l'Iran, il Piano d'Azione Congiunto (Joint Plan of Action), ovvero l'accordo interinale di Ginevra del 24 novembre 2013, che avrebbe portato al Piano d'Azione Congiunto Comprensivo multilaterale del 14 luglio 2015, fu apparentemente negoziato dal Segretario di Stato John Kerry e dal Sottosegretario Wendy Sherman. Mentre posavano per le fotografie, Kerry chiariva che non avrebbe lasciato Ginevra senza un accordo, comportandosi in modo molto simile al turista più amato da tutti i mercanti di bazar: quello che sceglie il tappeto che desidera fortissimamente, prima di contrattare per stabilire il prezzo...

Ma l'inadeguatezza dei due negoziatori ufficiali di Obama ha avuto poca importanza, perché i negoziati veri e propri, sostenuti da Malley alla Casa Bianca, sono stati condotti in Oman dall'allora vicesegretario di Stato William J. Burns e dal consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Biden, Jake Sullivan. Sono stati Burns e Sullivan a garantire l'accordo, facendo concessioni apparentemente procedurali che non sono state rivelate fino a quando non sono state deliberatamente divulgate dal religioso iraniano Abbas Araghchi per umiliare gli americani. Una di queste era che l'«acqua pesante» del reattore di Arak, fondamentale per il percorso del plutonio verso la bomba, non sarebbe stata stoccata in una località remota in Kazakistan o in Russia, come era stato pubblicamente ipotizzato, ma in Oman, a poche miglia marine dall'Iran, e non sarebbe stata sorvegliata da osservatori neutrali, ma piuttosto dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Una soluzione che assicurava al regime la possibilità di riportarla ad Arak in poche ore anziché in un giorno. I due governi avevano poi concordato che nessuna rivendicazione economica privata degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica islamica sarebbe stata dedotta dai rimborsi all'Iran per l'ultimo acquisto militare dello Scià, mai consegnato.

Siccome Burns e Sullivan sono stati monitorati da vicino dall'amico di Obama, Malley, per garantire un progresso senza intoppi verso il vero obiettivo della riconciliazione, le loro controparti iraniane devono aver avuto l'impressione che fossero dei tipi accondiscendenti, che avrebbero fatto concessioni se pressati duramente, invece di rispondere altrettanto duramente.

Allo stesso modo, non hanno contribuito alla deterrenza dell'Iran i continui messaggi tesi a giustificare e scagionare il regime, da ultimo poco prima dell'attacco aereo del 2 febbraio, quando un «funzionario americano» ha avvertito che gli analisti stavano ancora raccogliendo e valutando le informazioni disponibili per determinare se fosse stato l'Iran a ordinare «l'attacco più aggressivo in Giordania, che ha ferito molti americani e ne ha uccisi tre, o se un gruppo di miliziani avesse deciso di farlo da solo».

Poiché gli Stati Uniti erano guidati da persone che il regime di Teheran conosceva molto bene e che non temeva affatto, ed erano consigliati fino allo scorso agosto da un uomo che manteneva relazioni amichevoli con i loro amici di Washington, i leader iraniani non potevano essere facilmente dissuasi dal perseguire i loro piani. Al contrario, si sono scatenati con le loro quattro milizie sciite e anche con Hamas. Per l'amministrazione Biden, in particolare, l'unico modo per dissuadere l'Iran sarebbe stato attaccarlo direttamente, non appena le sue Guardie Rivoluzionarie avessero colpito gli americani con le loro milizie. Un obiettivo in Iran che non danneggerebbe i civili, ma al contrario incoraggerebbe la maggioranza silenziosa che detesta il regime e detesta le Guardie Rivoluzionarie per aver dirottato i proventi del petrolio per finanziare le loro avventure, sarebbe il loro quartier generale Thar-Allah a Teheran. Potrebbe non essere l'obiettivo giusto per una serie di ragioni, ma il principio in questione è che se la deterrenza fallisce può essere ripristinata - se mai - solo attraverso una rappresaglia deliberatamente sproporzionata, non inviando costosamente armi di precisione in mezzo mondo per attaccare edifici vuoti.

2-Fine
Traduzione a cura di Marco Zucchetti

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