Cinquecento euro al mese, al massimo seicento: è questo lo stipendio del boia, il salario che i reclutatori italiani dell'Isis, i due terroristi arrestati l'altro ieri a Brescia, offrivano a chi fosse pronto ad arruolarsi nelle file dello stato islamico, pronti ad ammazzare nei modi più disparati infedeli, spie, traditori, criminali comuni, omosessuali e dissidenti in genere dalla legge del Profeta. Nelle intercettazioni realizzate dalla Digos a carico di Lassaad Briki, tunisino, e di Muhammad Waqas, pakistano, emergono in modo inequivocabile non solo le loro personali aspirazioni alla Jihad, ma anche il ruolo logistico svolto per individuare altri combattenti. É questo il segnale più allarmante secondo gli inquirenti, perché dimostra la connessione diretta di Briki e Wakas con la rete operativa dell'Isis. E d'altronde ieri mattina, quando il tunisino e il pakistano si trovano per la prima volta davanti al giudice che li ha arrestati, si guardano bene dal proclamarsi innocenti, vittime di un errore, di una frase mal tradotta. Rifiutano di rispondere al giudice. É un loro diritto, ma è una scelta netta. Nessun dialogo con lo Stato italiano, cui hanno dichiarato guerra e che si proponevano di colpire in ogni modo possibile.
Il ruolo di reclutatori dei due arrestati emerge in occasione dei contatti con tale Tavnveed (o Tanwid, a seconda delle grafie), che i due avevano individuato per farlo diventare «soldato di Allah». «Io gli ho detto, non ti preoccupare Tanwir, ti mando in Siria (...) io gli ho detto che loro ti danno la casa, 500/600 dollari al mese all'inizio». Tra i benefit dei combattenti, oltre alla casa e allo stipendio, anche «ti danno una ragazza per sposare». É questo passaggio che spinge il giudice Elisabetta Mayer, nell'ordine di custodia in carcere per terrorismo internazionale a carico dei due, che Briki e Wakas «risultano avere svolto concreta attività di proselitismo».
L'inchiesta del pool antiterrorismo milanese, guidato dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, ha fatto insomma un passo in più rispetto all'ultima retata sul fronte della violenza islamica, gli arresti di due settimane fa dell'intera famiglia Sergio, i parenti della ragazza di Inzago andata a combattere sotto il nome di «Fatima». I Sergio sono finiti in galera per le loro manifestazioni di entusiasmo per la guerra santa: esplcite, inquietanti, ma solo parole. Invece i due arrestati di mercoledì sono terroristi in servizio. Quando Briki dice «ho sempre la testa lì, quel che conta è uccidere», o quando manifesta la sua ammirazione per Seiffedine Rezgui, l'autore della strage di Hammamet, che definisce «il campione» non si limita a dare aria ai denti, di essere uno dei tanti paria dell'immigrazione di massa che sognano il riscatto nella guerra santa, ma per gli inquirenti dimostra di fare parte a pieno titolo della struttura operativa. E il fatto che lui e Wakas progettassero un'operazione militarmente impegnativa come l'attacco alla base aerea di Ghedi, colpevole di ospitare i Tornado impegnati nei raid contro l'Isis, è la prova che non si tratta di cani sciolti, o di cellule individuali. Colpire i luoghi pubblici, come le chiese o i mezzi pubblici, è un obiettivo alla portata di qualunque fanatico, attrezzato con le bombe artigianali che la propaganda via web insegna con dovizia di particolari a realizzare. Ma colpire una struttura militare come la base di Ghedi è un altro paio di maniche.
Ed è proprio la pericolosità dei due arrestati che spiega i ritmi serrati che l'indagine ha avuto fin dai primi spunti offerti dalla Polizia postale, che ha inviduato i due monitorando i siti della propaganda jihadista in Italia: e che adesso sta spingendo gli inquirenti ad analizzare con urgenza il materiale informatico sequestrato nelle ambitazioni dei due arrestati.
Computer e schede di memoria vengono perlustrati alla ricerca di ulteriori riscontri ai collegamenti con l'ala dura della propaganda jihadista già emersi grazie alle intercettazioni sui social network realizzate durante le indagini. Briki e Wakas sanno perfettamente cosa c'è in quei computer. Anche per questo, forse, ieri hanno preferito non rispondere al giudice.
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