E, alla fine, dopo i suoi delitti, Battisti andava dalle ragazze a raccontare «quale effetto fa vedere il sangue da un uomo colpito». Migliaia di pagine di atti processuali, e basta una frase scritta dai giudici per capire chi era Cesare Battisti, il terrorista che oggi invoca la legalità per non essere consegnato all'Italia. Sta a pagina 246 della sentenza del processo che la Corte d'assise di Milano celebrò alle imprese dei Proletari armati per il comunismo: e che si concluse il 15 dicembre 1988 con la condanna all'ergastolo del solo Battisti (il processo si era dovuto rifare da zero, perché la prima volta una giurata in crisi da panico aveva cercato di suicidarsi in camera di consiglio lanciandosi dalla finestra).
Nelle 731 pagine firmate dal giudice Camillo Passerini la figura di Battisti esce a tutto tondo: e granitiche escono le prove dei delitti commessi dall'uomo che sarebbe diventato il beniamino della gauche caviar in Francia. «La decisione manifestata dal Battisti e la freddezza con cui ha compiuto i suoi crimini è più che evidente», si legge nelle motivazioni. «Egli è stato presente nella banda armata sin dall'inizio, ha messo a disposizione dei compagni politici la sua esperienza acquisita nella malavita comune, si è sempre e comunque distinto per la sua determinazione nell'uccidere».
A incastrare Battisti sono le confessioni dei suoi compagni di banda, riscontrate non solo da altre confessioni, ma anche dai verbali dei testimoni che assistettero agli omicidi, in particolare quelli del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro e dell'agente della Digos Andrea Campagna. Battisti era un sicario fiero di esserlo, per i giudici: tanto da accelerare per orgoglio l'uccisione di Campagna, che rischiava di essere eseguito da un nuovo accolito. «Battisti aveva già sparato materialmente al Santoro, era il killer del nucleo storico", aveva materialmente partecipato all'omicidio Sabbadin (...) un tale personaggio non poteva accettare remissivamente la lezione di tiro con la pistola che il Memeo intendeva dare ai Pac: se un maestro di tiro doveva esserci, non poteva essere altro che il Battisti».
Pietro Mutti, il primo dei Pac a pentirsi, indica Battisti come ideatore, oltre che l'esecutore, dei delitti: in particolare l'uccisione di Santoro, che Battisti aveva conosciuto in carcere a Udine, e cui, insieme al suo compagno di cella Arrigo Cavallina, l'aveva giurata. Sono certi «la identificazione del Battisti come colui che propose l'azione»; «l'arrivo successivo del Battisti che aveva con sè la borsa contenenti le armi ed il materiale per il trucco»; «le modalità dell'omicidio con la coppia Battisti-Migliorati abbracciata per circa dieci minuti, ad alcuni metri di distanza dal cancello della palazzina del Santoro (...) Battisti che si stacca improvvisamente dalla Migliorati, si avvicina di corsa al Santoro, lo colpisce con un primo colpo alla spalla e con altri due colpi, quasi a bruciapelo, quando il maresciallo è già a terra». I giudici riportano le dichiarazioni dei testimoni oculari: «La corrispondenza tra le suddette descrizioni, le foto segnaletiche e il racconto di Mutti appare quanto mai eloquente».
Lo stesso Cavallina - che in carcere era stato responsabile della conversione di Battisti alla politica - dopo l'arresto collabora, e dice che «l'inchiesta sulla vittima designata fu eseguita materialmente dal Battisti». Scrivono i giudici: «vi erano motivi più che sufficienti per punire con la morte il maresciallo Santoro in nome della giustizia proletaria: gli autori del delitto, dopo aver sparato, gli passarono vicino ad alta velocità e uno di loro lo salutò con un pugno chiuso». Sembra di vederlo, Battisti.
Anche l'esecuzione di Andrea Campagna, agente della Digos, per la Corte ha Battisti come ideatore e esecutore. Ed è lo stesso Battisti a raccontare tutto a Mutti, che incontra a Bologna qualche tempo dopo: «Il Battisti confermò che l'omicidio era stato compiuto dai Pac, e che l'obiettivo era stato individuato a seguito dei pestaggi a cui, secondo il Battisti, erano state sottoposte le persone arrestate a seguito dell'omicidio Torregiani». «Il Battisti gli disse che a sparare era stato lui».
«Il Mutti - aggiunge la sentenza - dichiara che il Battisti era solito calzare degli stivaletti appuntiti, con tacco tipo camperos per sembrare più alto: la circostanza è rilevante perché coincide con quanto detto dai testimoni». Quando sceglie di collaborare anche Sante Fatone, ricorda la Corte, «racconta che mentre si trovavano entrambi a Parigi Memeo gli aveva detto che all'azione avevano partecipato materialmente lui, il Battisti e una terza persona di cui non aveva fatto il nome».
«Queste dichiarazioni - conclude la Corte d'assise - portano alla identificazione del Battisti come di colui che materialmente esplose i colpi contro la vittima. I testimoni, infatti, ricordano che si trattava di un giovane biondo, non alto, con gli stivaletti camperos e con un giubbotto di renna. Sappiamo che questi erano gli indumenti indossati dal Battisti quel giorno, e sappiamo che i tratti somatici, riassunti nell'identikit, riportano ai suoi dati come emergenti dalle foto segnaletiche. Altro elemento a carico del Battisti: arrestato in via Castelfidardo e invitato a sottoporsi a ricognizione personale con i testi dell'omicidio Campagna, egli rifiuta tale adempimento istruttorio».
Altro che teoremi, come si vede.
Per questo l'ergastolo è inevitabile: «Battisti non ha esitato neppure per un attimo davanti alla commissione di sanguinosi delitti, si è reso latitante da lunga data e la sua condotta processuale non può essere quindi valutata a suo favore. Nessun elemento può indurre la Corte ad accogliere la richiesta delle attenuanti generiche».
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