Se prendessimo alla lettera gli ultimi scambi di minacce tra Stati Uniti e Corea del Nord, dovremmo concludere che siamo alla vigilia di una guerra che, fatalmente, coinvolgerebbe tutta l'Asia orientale. Per fortuna, le cose non stanno ancora così, ma il giorno del giudizio si avvicina. Negli ultimi mesi, Pyongyang ha compiuto progressi verso la realizzazione di un arsenale nucleare capace di colpire il territorio americano, lanciando missili intercontinentali e miniaturizzando (secondo un rapporto dei servizi Usa confermato dai giapponesi) le sue testate atomiche. Le uniche cose che ancora le mancano sarebbero lo scudo necessario a proteggere la bomba dal calore generato al rientro del missile nell'atmosfera e la fabbricazione di una bomba all'idrogeno cento volte più potente delle 15 o 20 di cui dispone finora. Comunque, tra non molto, potrebbe essere in condizione di colpire non solo Alaska o Hawaii, ma anche Chicago e San Francisco; e Trump, fin da gennaio, ha detto che questo non lo permetterà mai. Ma come fermare Kim, che sembra convinto che l'arma nucleare rappresenti la migliore garanzia per la sopravvivenza del suo regime? Le opzioni a disposizione di Washington sono varie, ma o sono inefficaci o comportano rischi troppo grandi.
Strada del negoziato, già tentata invano da Clinton, Bush e Obama: denuclearizzazione della penisola in cambio di ingenti aiuti e dell'abolizione delle sanzioni. Il segretario di Stato Tillerson (e alcuni alleati) ci hanno provato ancora pochi giorni fa al vertice Asean, ma Pyongyang non ne vuole sapere.
Un ulteriore inasprimento delle sanzioni, giunte la scorsa settimana all'ottavo round. Stavolta l'Onu con il voto anche di Russia e Cina, è stato più duro, puntando a ridurre le esportazioni con cui Kim finanzia il programma militare, da 3 a 2 miliardi l'anno. Pyongyang ha replicato che risponderà con «misure fisiche», e l'esperienza insegna che ha escogitato decine di modi per aggirare gli embarghi.
Continuare a premere sulla Cina, responsabile per il 90% del commercio di Pyongyang, perché tagli definitivamente i viveri al suo bellicoso vicino; ma Xi, nonostante gli impegni presi con Trump, ha fatto finora ben poco: teme il collasso del regime, che gli porterebbe milioni di profughi e una possibile riunificazione delle due Coree che non sarebbe nel suo interesse.
Rischiare un attacco preventivo alle installazioni nucleari e missilistiche di Kim. Ma queste sono ormai tanto disperse nel Paese e sepolte nelle montagne che difficilmente riuscirebbe nel suo intento mentre provocherebbe una reazione, anche di tipo convenzionale, di Pyongyang che potrebbe fare in pochi giorni centinaia di migliaia di morti. Certo, se i coreani attaccassero per primi, colpendo un obbiettivo Usa, Trump non esiterebbe a reagire, anche spianando il Paese con le atomiche. Ma nonostante le dichiarazioni sempre più aggressive, Kim lo sa e sarebbe insensato da parte sua condannarsi all'autodistruzione. Bisogna aggiungere che sia negli ambienti politici di Washington, sia tra gli alleati sudcoreani e giapponesi, le resistenze al ricorso alle armi sono ancora forti.
Trump non ha ancora fatto la sua scelta, né ha ancora
fissato una «linea rossa» che Kim non potrà varcare senza rischiare grosso. Ma la situazione rimane come Obama aveva avvertito il nuovo presidente al momento del passaggio delle consegne, la più pericolosa oggi sul tavolo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.