Ora per i giudici perdere il lavoro non è un «grave danno»

M a s ì, cosa volete che significhi perdere il lavoro? Un fastidio, un problemuccio: e poi, diciamolo, dopo si ha un sacco di tempo libero. Ai giudici della Cassazione, esponenti della categoria di dipendenti più tutelata del pianeta, inamovibili per Costituzione, abbarbicati alla poltrona e allo stipendio fino ai settant'anni, la tragedia di chi resta a spasso dal mattino alla sera evidentemente risulta lontana come Kepler 438b. Solo così si spiega l'incredibile sentenza emessa ieri dagli ermellini romani, chiamati a giudicare un imprenditore di Fossano, vicino Cuneo, accusato di non avere pagato le tasse e condannato in appello a sei mesi di galera.

Ai giudici, l'evasore aveva spiegato di avere dovuto scegliere: o pagava Equitalia e chiudeva la fabbrica, oppure faceva aspettare il fisco e continuava a dare un lavoro ai suoi operai. E siccome di lavorare i suoi operai avevano bisogno, ha scelto la seconda strada. I suoi avvocati hanno chiesto di assolverlo, come prevede la legge, per «avere agito in stato di necessità»: come si assolve chi ruba per fame, o chi spacca una porta per salvare un bambino.

Risultato: condanna confermata. I giudici potevano scrivere che l'imprenditore aveva cercato una scusa, aveva fatto il furbo.

E invece no: «Pur essendo fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito, e che il lavoro contribuisce alla formazione e allo sviluppo della persona umana, deve escludersi tuttavia che la sua perdita costituisca, in quanto tale, un grave danno alla persona».

Tanto il loro non glielo tocca nessuno.

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