«Se restiamo in silenzio, domani verranno a cercare qualcuno di noi», ha scritto su Instagram prima di mettersi in marcia e finire in manette per la seconda volta in una settimana, mentre chiedeva la scarcerazione del marito. D'altra parte Yulia Navalnaya lo aveva detto all'aeroporto di Mosca subito dopo l'arresto di lui il 17 gennaio, di rientro dalle cure in Germania: «Alexei non ha paura, nemmeno io ho paura, e invito tutti voi a non aver paura». Parole di una moglie disposta a tutto pur di battersi per la libertà del marito. Parole di una «first lady» - così la chiamano i sostenitori - consapevole che i riflettori ormai sono puntati su di lei. Il marito Alexei, principale oppositore di Putin, è in cella e rischia tre anni e mezzo di prigione. Yulia sa che adesso è lei il simbolo della battaglia comune, che protestare in ogni modo per rivedere libero il marito vuol dire anche combattere per una Russia più libera. «Non c'è nulla che non possiamo affrontare - aveva scritto prima di imbarcarsi sul volo che da Berlino avrebbe riportato la coppia a casa, in Russia - Tutto andrà sicuramente bene», diceva, pur sapendo che appena messo piede a Mosca il marito avrebbe rischiato il carcere.
Ma Yulia non è tipa da tirarsi indietro. Classe 1976, figlia di uno scienziato e di una dipendente ministeriale, laureata alla Plekhanov Russian Economic Academy di Mosca, dove ha studiato relazioni internazionali, lady Navalny ha conosciuto Alexei durante una vacanza in Turchia nel 1998. Già nel 2013, quando l'avvocato era diventato suo marito e si candidava a sindaco di Mosca, lei parlava così: «In Russia non vediamo le mogli dei politici alle proteste, ma la politica entra come una tempesta nella vita delle famiglie, che ti piaccia o no». Yulia lo sa da tempo. Madre di due giovani, Daria, 20 anni, e Zakhar, 13 anni, ha lasciato il lavoro in banca per dedicarsi ai figli ma ha passato il resto del suo matrimonio parando i fulmini della vita politica del marito. Costretta a subire i continui arresti di Alexei, le perquisizioni (l'ultima in casa a Mosca cinque giorni fa) i pedinamenti (anche quelli denunciati nei giorni scorsi) e infine l'avvelenamento, il momento della svolta. «Yulia, mi hai salvato», l'ha ringraziata il marito via Instagram appena ripreso coscienza. Sì, perché è grazie alla decisione di lei di scrivere al presidente Vladimir Putin e «pretendere» - parole testuali - che Alexei venisse trasferito per le cure, che il marito ha ottenuto il via libera per raggiungere la clinica di Berlino, dove è uscito dal coma.
Occhiali scuri, parole chiare, è stato con il tentato omicidio del marito che Yulia si è presa la scena, costretta dalle circostanze dopo anni al fianco di Alexei ma mai sotto i riflettori. Aggiornava i giornalisti sullo stato di salute del marito, senza perdere occasione di puntare il dito, via social, contro i responsabili: il Cremlino, lei ne è certa, anche se le autorità russe continuano a negare. «È stato il momento della sua trasformazione da figura di accompagnamento a personalità indipendente», ha spiegato Alexander Baunov del Carnegie Centre di Mosca. È da allora che molti l'hanno ribattezzata la «Tikhanovskaya russa», paragonandola a Svetlana Tikhanovskaya, la leader bielorussa candidatasi alla presidenza contro il dittatore Lukashenko dopo l'arresto del marito Sergei.
Qualche settimana fa, alcuni siti di proprietà del miliardario Konstantin Malofeyev, vicino al Cremlino, hanno minacciato di pubblicare scambi intimi - foto o messaggi - tra Navalny e altre donne se Yulia non rinuncerà a «diventare la Tikhanovskaya di Russia». Lei ieri, per tutta risposta, è tornata in piazza. Liberata qualche ora dopo il fermo della polizia.
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