Un eurocompromesso, un equilibrismo che rinvia tutto a dopo le elezioni europee. Fidesz, il partito del presidente ungherese Viktor Orbán, è stato sospeso con effetto immediato dal Ppe, la famiglia di centrodestra dell'Europarlamento, ma non è rottura definitiva. La sospensione - avvenuta per votazione durante una riunione a Bruxelles: 190 sì e 3 soli no - è infatti «concordata». E anche Orbán la oblitera: «È stata una decisione presa insieme. No, non abbiamo dato né ottenuto garanzie. Ero pronto a sbattere la porta, ma la maggior parte dei membri del Ppe non voleva che ce ne andassimo via perché sanno che siamo un partito forte e non era saggio lasciarci andare». A fare da mediatore ci sarebbe stato anche Silvio Berlusconi, che parla di «migliore soluzione possibile» e svela: «Ci siamo spesi per fare in modo che il Ppe possa confermarsi primo partito al Parlamento Europeo».
Un comitato di tre saggi composto dall'ex presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, dall'ex capogruppo del Ppe Hans-Gert Poettering e dall'ex cancelliere austriaco Wolfgang Schuessel, monitorerà le attività del partito di Orbán e tra qualche tempo, presumibilmente dopo il voto del 26 maggio, prenderà una decisione. Fino ad allora Fidesz non parteciperà alle riunioni del Ppe, non avrà diritto di voto né di proporre candidati per le cariche.
Al termine di una giornata di trattative e boatos è stata trovata una strada intermedia tra il rigore tedesco e la Realpolitik che sconsiglia al gruppo di maggioranza relativa dell'europarlamento (217 membri su un totale di 751) di rinunciare agli 11 europarlamentari di Fidesz consegnandoli ai sovranisti di Europa delle Nazioni e della Libertà, che annovera Lega e Front National.
Orbán è da tempo malsopportato da diverse formazioni del Ppe - in particolari dai tedeschi del Cdu-Csu, che dettano la linea - che ne criticano gli atteggiamenti estremi e antidemocratici. Un paio di settimane fa il presidente del gruppo e candidato alla presidenza della commissione europea Manfred Weber ha messo tre condizioni alla permanenza del partito governativo ungherese nel Ppe: che Orbán la finisca di fare campagna elettorale riempiendo l'Ungheria di manifesti contro il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker; che chieda scusa formalmente al Ppe; e che metta fine alle pressioni perché l'università di George Soros lasci Budapest. Ma Orbán finora ha ritenuto queste richieste irricevibili. Anzi, ha rilanciato spiegando che sono gli altri a sbagliare: è lui il depositario dei veri valori del Ppe, ovvero la difesa della cristianità, della famiglia e dell'impresa.
Questo fino al voto di ieri, a cui si è arrivati con il Ppe apparentemente spaccato. Da un lato i tedeschi fautori della linea dura, con Juncker in prima linea a ribadire alla tv tedesca Deutschlandfunk che «sono da almeno due anni dell'opinione che Orbán si è allontanato dai valori di fondo cristiano-democratici del Ppe». Più sfumata la posizione di altri partiti del gruppo, tra i quali Forza Italia.
Massimiliano Salini, europarlamentare azzurro, è convinto che Orbán debba ammorbidirsi su immigrazione ed europeismo ma restare nel recinto del Ppe «perché ha fatto ripartire l'economia dell'Ungheria dandole una identità chiara e politiche realmente orientate allo sviluppo basate su due pilastri cari anche al Ppe: famiglia e impresa». E anche il leader del Partito democratico sloveno Janez Jansa ha chiesto fino all'ultimo di rinviare il voto di ieri perché «spaccare la famiglia del Ppe non potrebbe essere più autodistruttivo».
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