L'acqua battesimale ha bagnato la maglia azzurra numero venti. Lacrime di pianto e di gioia, le stesse che Paolo Rossi si è portato appresso nei suoi anni meravigliosi improvvisamente strappati, le stesse che hanno rigato i volti di chi ha seguito il rito nel Duomo di Santa Maria Annunciata. Fuori c'era Vicenza, composta, ordinata, silenziosa, appena svegliata dal suono delle campane e dal coro dei tifosi, Rossigol Rossigol, come ai tempi grandi del Lanerossi al Menti. Dentro c'erano Paolo e il suo mondo, gli affetti più cari, la moglie di altissima dignità, le figlie, il figlio e i campioni, compagni e amici di avventure, di trionfi, di un tempo lontano che è tornato presente, vicinissimo, straziante, perché la memoria è una scala mobile sulla quale sale la nostalgia e, maledetta, diventa emozione e poi commozione, il pianto non è liberazione ma resa e fuga assieme. C'erano tutti i ragazzi dell'Ottantadue, Marco non urlava, Claudio non marcava, Bruno non dribblava, Giancarlo non correva, Fulvio non respingeva, Spillo non puniva, Beppe osservava, Federica ha convinto Toni a leggere le parole di addio e Antonio, inforcando gli occhiali dalla nera montatura, ha infine obbedito, senza mai scivolare nel patetico. Patetica è stata Sky che, un secondo dopo, ha fatto partire la pubblicità e, lungo tutta la cerimonia, ha mantenuto la gabbia grafica a cornice della funzione funebre, scorrevano, tra un'omelia e un amen, i risultati di altri campionati e discipline, le classifiche, alcuni annunci commerciali, il mercato in contemporanea al funerale.
In questa mediocre realtà di venditori ambulanti si sono notate le assenze meschine delle istituzioni, assente il presidente del Coni, assente il ministro dello sport (la cui presenza comunque avrebbe avuto uguale peso), assente, innanzitutto e soprattutto, il presidente della Juventus che ha spedito il solito labaro per significare il rapporto che questo club, oggi, ha con il proprio glorioso passato, non illustrato certamente dal fatturato ma da eccezionali risultati internazionali. Quando Gianni Agnelli andò a trovare la squadra azzurra prima della finale di Madrid, gli fu chiesto: «È venuto a vedere i nazionali?» «Sono venuto a vedere i nostri».
I nostri sono rimasti quelli di Gianni e Umberto Agnelli, di Pertini, di Bearzot e Cesare Maldini, di un Paese che ha smarrito il senso del rispetto, che ha buttato via la memoria, preferendo un fastidioso e fasullo vociare social. Se tutti gli assenti non hanno ritenuto doveroso partecipare alla cerimonia funebre di un campione del mondo, quando mai riterranno di essere riconosciuti e riconoscibili? Franco Selvaggi è salito in auto dalla sua Lucania e dopo mille chilometri, di notte, ha raggiunto Paolo e, conclusasi la messa, Spadino è ripartito verso il sud. Questo è l'amore, questo è il campione, questo è l'uomo, non certamente le figure di cera che offrono la stessa espressione per qualunque evento.
Ma forse è stato meglio così, Paolo ha ritrovato la sua famiglia, quella vera, riunita, dello spogliatoio e della sua casa. Non altri, non gli estranei. A Vicenza, il calcio di ieri ha sconfitto il calcio di oggi, lo ha smascherato con l'affetto di quei campioni che hanno portato a spalla il loro compagno di Spagna e di vita, come accadeva dopo un gol, dopo una vittoria, dopo quel trionfo. Prima, educatamente timorosi anche di una semplice stretta di mano, poi finalmente liberi di abbracciare, baciare, stringere corpi svuotati dalla sofferenza, pieni di dolore però desiderosi di quel sentimento imprigionato, confusi dalle lacrime, dalla voglia di essere altrove, sperando si trattasse di un incubo, di un sogno cattivo, di una falsa notizia. Invece Paolo era davanti ai loro occhi arrossati, stava appoggiato sul marmo della navata, al centro, così gli capitava in campo, la bara di legno bianco, semplice come la sua esistenza, le mani di Federica, Sofia Elena, Maria Vittoria, Alessandro, la sua più bella squadra privata, hanno continuato ad accarezzarlo, quasi cercando una risposta. I compagni erano tornati squadra, uomini campioni del mondo. Intanto non percepivi gemiti strazianti, non vedevi fumogeni, non udivi spari di mortaretti, era il silenzio religioso e profondamente umano, senza esibizione. La melodia di Renato Zero e di Orfani di cielo, ha scaldato cuori già di fuoco: «... Eccoci qua, Figli di questo benessere assassino, Privi di una poesia, Di una preghiera, dell'allegria. Apriti tu cielo, Guarda quaggiù cielo, Più azzurro che puoi cielo, Che un po' di immenso ci serve...».
Non c'era nemmeno il tempo per pensare, non c'era più il tempo per trovare un appiglio al precipizio di dolore e di sensazioni, la mascherina di Roby Baggio si muoveva nascondendo il pianto profondo, Paolo Maldini sembrava più alto di mai, gli occhi di Giovanni Galli ricordavano il dramma di Niccolò. Fili scoperti sulla nostra pelle, domande di sempre, risposte di mai, perché? Come? Dove? Una mattina italiana, di quelle che non sappiamo più, di quelle che non riusciamo nemmeno più a raccontare, di gente assieme, di condivisione e di partecipazione, il tesoro smarrito per colpa di questo virus. Paolo ci ha restituito il senso della vita, ha aperto la cella della prigione, ha concesso di vivere con lui, ora che non c'è più, una fetta del tempo che avevamo dimenticato e, forse, trascurato. Un uomo non muore mai se c'è qualcuno che lo ricorda.
Ugo Foscolo così scriveva e così Paolo non sarà dimenticato. Perché possa ancora vivere. Vicenza è tornata a essere una città uguale a mille altre. Oggi sarà Perugia a celebrare l'idolo di un'estate violenta. Infine, il campione resterà solo. E mai abbandonato.
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