Paese fragile, in gioco l'equilibrio della regione

I nodi migranti e jihad. Le mosse della comunità internazionale. L'Italia? Indietro

Paese fragile, in gioco l'equilibrio della regione

Il Libano è grande come metà della Lombardia, ma per posizione, storia e miscuglio religioso rappresenta un crocevia di squilibri regionali sempre sull'orlo del precipizio. Un tempo era la «Svizzera del Medio Oriente», ma poi la guerra civile con l'elemento esterno dei palestinesi ha fatto saltare il vaso di Pandora del paese dei cedri. La pace è tornata, ma il Libano non si è mai risollevato accentuando i contrasti interni e le pressioni esterne in un mix esplosivo. Se salta il paese dei cedri si rischia una deflagrazione ben più ampia che può sconquassare l'intero Medio Oriente. Per questo la comunità internazionale capitanata dalla Francia si sta mobilitando per evitare il peggio e un'ondata di profughi verso l'Europa. Paesi piccoli e grandi sono coinvolti nello sforzo, dopo la devastante esplosione di Beirut, con l'Italia fanalino di coda.

Il Libano è fragile essendo campo di battaglia delle potenze regionali. Il 27 luglio, prima che mezza Beirut venisse rasa al suolo, il partito sciita armato Hezbollah e gli israeliani si sono scontrati nel Sud a colpi di artiglieria. Nel 2006 una pesante guerra fra i due contendenti con l'appoggio dell'Iran agli sciiti libanesi aveva messo il paese in ginocchio. I giannizzeri di Hezbollah hanno puntellato il regime di Assad nella confinante Siria fino all'arrivo dei russi. E le cellule jihadiste sunnite godono da anni di basi in Libano e collegamenti con i ribelli siriani. I sauditi hanno in pugno Saad Hariri, ex primo ministro, che con il suo partito ha già dichiarato che l'esplosione di Beirut è l'inizio di una guerra. I nodi potrebbero venire al pettine il 18 agosto, quando il tribunale dell'Onu ha rimandato, in seguito alla tragedia, il verdetto nei confronti di quattro esponenti di Hezbollah accusati dell'omicidio dell'allora premier Rafik Hariri, padre del giovane Saad. Uno scontro fra sunniti e sciiti con i loro padrini internazionali non lascerebbe fuori i cristiani. Forse è solo un caso, ma il quartiere più colpito dall'esplosione, dopo il centro dei negozi alla moda della capitale voluto dal defunto Hariri, è Achrafieh, roccaforte cristiana fin dai tempi della vecchia guerra civile. Sul caos libanese si affaccia in nome delle aspirazioni neo ottomani anche il «sultano» Erdogan. La Turchia ha offerto la cittadinanza ai libanesi che si dichiarano turcomanni e messo a disposizione il porto di Mersin dopo la distruzione di quello di Beirut.

Il presidente Macron, in nome del legame storico con il paese dei cedri, era fra le macerie il giorno dopo il disastro. Nelle stesse ore la Farnesina si è fatta notare perché un nostro sottosegretario ha confuso, nel messaggio di solidarietà, i libanesi con i libici. A parte la gaffe il governo italiano ha mandato un paio di arei C 130 con una pattuglia di vigili del fuoco e un pugno di specialisti dell'esercito. Per i legami con il Libano, dove abbiamo il grosso dei caschi blu e il comandante della missione Onu che fa da cuscinetto fra Israele ed Hezbollah, avremmo dovuto fare salpare almeno due navi cariche di aiuti. Il paese ha dichiarato default in marzo, 1 cittadino su 2 vive sotto la soglia di povertà e il tasso d'inflazione è del 250%. I giovani trasversali che inneggiano alla rivoluzione in piazza non ne possono più della crisi economica, della corruzione e del sistema di potere incapace di varare le riforme.

In piazza «impiccano» l'immagine di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, ma pure quella del presidente cristiano Michel Aoun alleato degli sciiti. L'esplosione di Beirut è una terrificante scintilla, che rischia di trasformare le proteste in rivolta armata o, peggio, in guerra civile, che si farebbe sentire in tutto il Medio Oriente.

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