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Parlano i jihadisti in carcere: "Presto arriveremo in Europa"

Sono molto giovani e fanatizzati, il loro obiettivo è la costruzione di un mondo senza "infedeli". Chi non si converte deve morire. Sostieni il reportage

Parlano i jihadisti in carcere: "Presto arriveremo in Europa"

Erbil, Kurdistan iracheno

I fronti a sud di Kirkuk che fino a qualche mese fa erano luoghi di continue battaglie, oggi si presentano come immensi spazi silenziosi, dove migliaia di soldati Peshmerga rimangono in attesa di ricevere indicazioni. Tutti aspettano l'ordine di attaccare Mosul, capitale dello Stato Islamico in Iraq e tutti sanno che quello sarà lo scontro finale, quello che deciderà le sorti del Kurdistan. Una finta calma piatta regna su tutto il confine con lo Stato Islamico. Ma è un inganno. Perché anche a Erbil, la capitale di questa piccola nazione, l'aria è apparentemente più distesa. Rispetto a qualche mese fa la città si presenta molto meno militarizzata. Ma anche in questo caso si tratta di un inganno. La lotta all'Isis è in verità più cruda e rozza che mai, anche se meno evidente. Un imponente lavoro di intelligence voluto fortemente dal Presidente Barzani ha permesso l'arresto di uomini e donne, appartenenti allo Stato Islamico o a cellule vicine all'organizzazione terroristica. Un lavoro di prevenzione che ha permesso di evitare molti attentati o di catturarne tempestivamente gli esecutori, come i terroristi che il 17 aprile scorso avevano piazzato un'autobomba davanti al consolato americano nel quartiere cristiano di Ainkawa.

Il carcere di Erbil è un'immensa struttura in cemento controllata per ogni centimetro da guardie armate, si è riempita velocemente di uomini che scontano pene che vanno dall'ergastolo alla pena di morte per impiccagione. L'ordine ufficiale è quello di impedire ogni contatto tra detenuti e giornalisti. I prigionieri vengono divisi in due categorie: gli iracheni e gli stranieri. Se è possibile dopo lunghe trattative incontrare alcuni terroristi locali, non lo è affatto per i foreign fighters . La diplomazia internazionale, ci fanno intendere ad Erbil, è in fibrillazione a causa dei molti connazionali che si sono uniti all'Isis. È evidente che il Kurdistan non intende rompere con nessuno, specialmente in un periodo come questo, dove ogni passo falso può rendere più complicato il percorso verso un'indipendenza del paese dal resto dell'Iraq. Entriamo nel carcere scortati da due uomini del Parastin, i servizi curdi, addetti ad impedirci di fare qualunque ripresa all'esterno o a colloquiare con personale non autorizzato. Veniamo portati in una stanza persa nei corridoi e inaspettatamente dopo solo qualche minuto di attesa fanno entrare il primo detenuto. Dice di chiamarsi Muhenet, ha 38 anni e sta scontando l'ergastolo. É stato catturato in un fronte a sud di Kirkuk. Ci racconta che è passato nelle file dell'Isis anche per una questione economica: i 250 dollari al mese che l'organizzazione terroristica gli passava erano più di quanto potesse sperare facendo il muratore. Ma ovviamente a fare breccia nel cuore di Muhenet è stata la convinzione di potere contribuire alla nascita di uno Stato Islamico senza infedeli: «I cristiani si devono convertire o pagare la tassa in quanto non musulmani. Rifiutarsi vuol dire andare incontro alla morte per impiccagione o peggio ancora crocifissi». La stessa sorte tocca a chiunque ostacoli o metta in discussione la legge ferrea della sharia imposta nelle città controllate dall'Isis: omosessuali, curdi musulmani, yazidi e caldei. Per tutti, ripete Muhenet, la fine è la stessa. Il nostro evidente stupore non desta alcuna reazione negli occhi del detenuto, rimane freddo e si limita a ripetere che lo Stato Islamico «si è ormai insediato e presto arriverà in Europa. Allora le vostre donne indosseranno il niqab (velo integrale) e tutti vivranno secondo la legge coranica». E aggiunge: «Provo dispiacere per i cristiani crocifissi, se si fossero convertiti il loro destino sarebbe stato un altro». Per Muhenet la sorte a cui sono andate incontro le donne yazide è uno dei tanti normali argomenti di cui parlare. «Quelle che decidono di non convertirsi vengono vendute. Il prezzo dipende dalla bellezza della ragazza. 800 dollari è il prezzo medio, ma se ne possono trovare di più economiche». E chi decide di convertirsi? «In quel caso la ragazza viene data in moglie a un combattente». Di foreign fighters Muhenet sembra averne visti molti: «C'erano americani, inglesi e anche italiani. Passano tutti quanti dalla Turchia, il viaggio è facile. Abbiamo uomini sparsi in Europa che reclutano nuove leve. Il volo è di sola andata per Istanbul, meglio ancora per Gaziantep. Da li i nostri provvedono a farti passare il confine e a portarti nei nostri territori».

Ci portano un secondo prigioniero. Si chiama Muhasin e ha 18 anni. Ha i polsi tagliati dalle manette che forse porta tutto il giorno e lo sguardo inebetito da un carcere troppo duro. La bocca è completamente secca e le labbra segnate da profondi solchi. Riesce a parlare con difficoltà, ma si sforza e spiega in due parole cos'è per lui l'Isis: «Jihad… paradiso…». L'intervista viene interrotta continuamente dal suo carceriere, che lo sprona a parlare più chiaramente. Muhasin parla a tratti e capisce male le nostre domande, ma riesce a spiegarci come molti giovani vengano costretti a combattere. «Ti obbligano con la forza ad unirti a loro, specialmente se sei giovane». A Muhasin, così come al resto dei detenuti, non è permesso avere contatti con l'esterno. La sua famiglia non sa neppure dove si trovi: «I miei genitori mi credono morto. Prima o poi vorrei poterli riabbracciare». Anche per lui la vita troverà fine in carcere, la pena è l'ergastolo.

L'ultimo detenuto che incontriamo si chiama Abdel Aziz e ha soli 15 anni. Arrestato anche lui al fronte, rimasto ferito a un'anca dopo uno scontro a fuoco. Il suo carceriere gli chiede di farci vedere la ferita, lui rifiuta, prova vergogna «è in un posto intimo» ripete. Ma la guardia lo forza, lui cede e ammanettato com'è abbassa quanto basta i pantaloni per pochi secondi. Poi ci parla del reclutamento e della fase di indottrinamento: «A 12 anni è normale prendere un'arma e andare al fronte. Prima però si passa da un addestramento che dura circa 4/5 giorni». Poi aggiunge: «Capitava spesso di partecipare a incontri con alcuni imam. Ci parlavano del paradiso e di quanto fosse facile arrivarci morendo da martiri». Cerchiamo di capire quanto davvero l'ideologia islamista abbia penetrato la mente di Abdel, se ancora c'è spazio per pensieri umani. Cosa è peccato? «È peccato mortale l'alcool, le sigarette, le puttane, frequentare cristiani, l'occidente… voi siete i nostri nemici». Neppure le galere curde sembrano avere fatto cambiare idea ad Abdel, che si limita solo a dirsi pentito di essersi unito, ma che intanto giustifica i metodi dell'Isis.

La sua in realtà è la posizione di molti arabi. In tanti hanno scelto di non imbracciare le armi, ma non hanno provato neppure a ostacolare l'arrivo dei terroristi, anzi ne hanno facilitato l'ingresso e alleggerito il lavoro. Come quelli di Mosul che ancora prima dell'ingresso del da'sh (Stato Islamico) in città, hanno depredato le case dei cristiani fuggiti via e buttato giù le croci dalle chiese. Usciamo dal carcere storditi, confusi. Quelli erano i tagliagole che abbiamo disprezzato e odiato guardandoli in tv uccidere donne e bambini. Ci sentiamo traditi, arrabbiati, caduti in una trappola. È la compassione che arriva quando non la cerchi e che ti mette a disagio. Si, abbiamo provato compassione per alcuni di loro. E i curdi? Loro no, non ci cascano. Un tranello quindi? Forse sì, o forse siamo più semplicemente Cristiani.

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