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Il pasticcio sul Lavoro del sabotatore Orlando

Bassa sintonia con Draghi. Il ministro è in ritardo sul welfare. Pd poco governativo

Il pasticcio sul Lavoro del sabotatore Orlando

L'autunno per Mario Draghi si presenta controvento. Non è una stagione calda di scioperi e di fabbriche presidiate. Non è più il tempo e, comunque, non è che ci sia molto da occupare. Ci sono invece questioni da risolvere. La pandemia non è ancora finita, ma si comincia a respirare aria di normalità.

La ripartenza è nei numeri dell'economia, migliori di quanto in fondo si sperasse. Solo che adesso bisogna fare seriamente i conti con il lavoro. Non è una sorpresa. I 422 licenziamenti della Gkn di Campi Bisenzio non sono un accidente sfortunato e non basta un giudice a risolvere il problema. Sono il segno di una fragilità. Draghi da tempo ha chiesto al ministero del Lavoro una riforma del welfare, un piano strategico che vada oltre i vecchi ammortizzatori sociali e non si limiti al reddito di cittadinanza. Si è parlato di politiche attive, di accordi con i sindacati, di lavorare con tutti i dicasteri economici per arrivare preparati a quello che sta accadendo. Non è facile tenere testa ai grandi gruppi stranieri che troppo spesso mordono e fuggono, ma il dovere del governo è cercare contromisure. Ora c'è un ministro che sembra aver deluso le aspettative di Draghi. È Andrea Orlando, uno degli uomini chiave del Pd, vice segretario con Zingaretti e capo della corrente Dems della Ditta. Dems sta per democrazia, Europa e società e non ha mai nascosto la sua vocazione governativa. La compatibilità con le politiche di Draghi avrebbe dovuto essere quasi completa. Ci si sarebbe aspettato di trovare tra i «pretoriani» del capo del governo proprio uno come Orlando e invece ci trovi Brunetta, Giorgetti o perfino Di Maio. Orlando no, Orlando si è nascosto e non riesce a superare il suo ruolo nel partito. È, come molti nel Pd, un «draghiano» riluttante, nostalgico del Conte bis. Il risultato è che a Palazzo Chigi stanno ancora aspettando il piano sul wlefare e, come racconta Giuseppe Colombo su Huffington Post, sono rimasti sconcertati davanti al decreto anti-delocalizzazioni, tanto da affidare la pratica a Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi. È una sorta di commissariamento, anche se nessuno al governo lo chiamerebbe mai così.

Nel governo c'è preoccupazione per l'attuazione del Pnnr. È arrivato il momento di accelerare. I commissari straordinari alle grandi opere chiedono a Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile, un cambio di passo. Serve un piano per snellire la burocrazia e liberare gli amministratori pubblici dalla paura della firma. Le difficoltà sono tante, ma anche in questo caso si nota una certa mancanza di coraggio nell'uscire dagli schemi tradizionali della sinistra di governo. È un timore, non una colpa, ma si fatica a capire che serve un colpo di reni per portare l'Italia fuori dalle sue paure.

Il sospetto è che qualcosa tra Draghi e il Pd non stia funzionando. L'alibi è di dover convivere con Salvini nella maggioranza, ma Enrico Letta non si è mai sbracciato per rivendicare il lavoro del governo e ha preferito rimarcare battaglie identitarie, oltretutto sbandierandole con un tempismo un po' situazionista. È lì che il presidente del Consiglio ha cominciato a chiedersi fino a che punto poteva contare sulla fiducia del Pd.

No, non quella parlamentare, ma quotidiana, fatta di lavoro, di idee, di sostegno concreto alla messa in opera delle riforme richieste e finanziate dai fondi europei del Next Generation. È come se il Pd avesse paura del futuro.

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