La paura di denunciare e il politically correct

La paura di denunciare e il politically correct

Un freno culturale. Una sorta di bon ton del politicamente corretto che, va detto con chiarezza, non è adeguato ai tempi. Siamo in guerra, anche se questa verità può suscitare disagio o fastidio. E dunque diventa un dovere denunciare il nemico che prepara le bombe e sogna la morte dei nostri figli. A Fallowfield, otto chilometri dall'Arena della strage, i comportamenti di Salman Abedi non erano passati inosservati. Sì, certo, il giovane libico abitava in una villetta a schiera, studiava economia all'università, insomma apparteneva ad una famiglia integrata. Niente a che fare con i disperati delle banlieu francesi. Ma questo non conta. Contano, eccome, i comportamenti eccentrici degli ultimi mesi: le preghiere ad alta voce ostentate in mezzo alla strada, la barba lunga, la bandiera in giardino. E persino i mozziconi di discorsi in arabo: la lingua della jihad. Era chiaro che nella testa del ragazzo era scattato qualcosa. Le indagini ci diranno dove si fosse accesa la miccia del radicalismo e quanto estese fossero le complicità, dentro la comunità libica di Manchester.

A noi, però, questa storia insegna qualcosa: segnalare anomalie al bobby di turno, al vigile di quartiere o direttamente in commissariato non vuol dire violare la privacy del prossimo; e nemmeno significa strisciare come un serpente fra i veleni della delazione. No, agire è scrivere una pagina di educazione civica e dare il proprio contributo alle forze dell'ordine e all'intelligence che dovrebbero fare i conti con terroristi più sfuggenti di una saponetta. Mimetizzati, ma fino a un certo punto, nell'ambiente come i predatori nella giungla. Questa equidistanza non è più possibile: a Londra, a Parigi e pure a Milano e Roma. Se gli abitanti di Fallowfield avessero colto i segnali e avvisato le autorità, probabilmente la strage di Manchester, forse la più odiosa nel pur agghiacciante catalogo di carneficine degli ultimi anni, non ci sarebbe stata.

Invece viviamo in una società multietnica, disincantata, confusa, dove tutto si annebbia e si confonde. Le responsabilità sfumano, l'identità si smarrisce come un codice segreto che non troviamo più, l'educazione diventa un filo sottile e allora fatalmente anche la vigilanza sociale, che dovrebbe essere la proiezione della nostra tensione interiore, si affievolisce.

Ai tempi delle Brigate rosse paura e omertà sigillavano molte bocche. Altri, nelle fabbriche e nei salotti, tacevano per un perverso gioco di sponda, per affinità, per simpatia. Oggi, il cittadino occidentale è semplicemente spaesato e fatica, con le ovvie differenze da paese a paese, a rapportarsi con una realtà che gli appare estranea. Forse ostile, ma comunque fuori dal proprio perimetro. Sconosciuta come un meteorite arrivato dalla luna. E però generalizzare serve a poco o niente.

Certi cambiamenti, certi comportamenti, certi dettagli marcano una metamorfosi che può essere registrata ovunque. Al bar. Sul marciapiede. Davanti alla scuola. Inutile illudersi che siano le istituzioni a toglierci le castagne dal fuoco. Intendiamoci, il ruolo dello Stato è e sarà sempre decisivo. Il nemico non sta solo al di là della prima linea, in Iraq o in Siria, no sta anche qua. Nelle nostre città. Piccole cellule. Gruppetti carburati dal fanatismo. Lupi solitari. Talvolta prudenti, anzi invisibili fino alla paranoia, ma in altre circostanze già sospettabili e inquadrabili nella deriva che scuote e terrorizza l'Occidente.

Fosse stato un nazista, con i poster del Fuhrer e il culto delle armi, Salman Abedi non sarebbe sgusciato via. E avrebbe terminato la sua corsa molto prima. Con l'Islam, con quel frammento estremista di Islam, non è così. Non possiamo più permetterci questa indulgente ritrosia.

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