La virata era in corso da tempo, ma ieri è stata solennemente ufficializzata dal voto (unanime) della Direzione Pd: abbandonato il vessillo maggioritario delle stagioni uliviste, si punta ad una legge proporzionale.
Il segretario Nicola Zingaretti precisa che ci devono essere «adeguati sbarramenti» e «liste corte», e i suoi spiegano che si tratta del «modello spagnolo». Proprio quel modello spagnolo, guarda caso, su cui Maria Elena Boschi, per conto di Matteo Renzi, aveva messo il veto l'altra sera nella riunione di maggioranza, aprendo invece ad una soglia di sbarramento nazionale del 5%. Ossia il modello osteggiato da Leu, il partitino di Bersani e compagni che non è in grado di superare alcun tipo di quorum e punta a far candidare qualcuno dei suoi dal Pd nelle sue «liste corte».
Il modello spagnolo su cui punta Zingaretti, e sul quale il suo vice Andrea Orlando ha trattato un'intesa di massima col rappresentante di Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, serve insomma a stoppare le ambizioni renziane di costruire un proprio partito nazionale, e di condizionare future maggioranze: un rischio da disinnescare. Ma Renzi non sembra preoccuparsi granché dello sgambetto dem. Pubblicamente non dice niente, in privato assicura ai suoi: «Tanto non passerà mai, vedrete che alla fine si arriverà ad un accordo sullo sbarramento nazionale, che è la strada più semplice». E il retropensiero dei renziani è che la soglia non resterà al 5%, ma si abbasserà ragionevolmente. Del resto Renzi conta sul fatto che nello stesso Pd non tutti sono sulla linea «spagnola». Dario Franceschini, capofila della delegazione di governo, ha espresso diverse perplessità: «Bisogna trovare una mediazione che non rompa la maggioranza: possiamo anche assumere il modello spagnolo come posizione di partenza, ma quel che conta è il compromesso cui si arriva alla fine».
Dal Nazareno filtrano sospetti pesanti sulle reali intenzioni dell'ex premier dem: «Ha fatto un accordo con Salvini: la Lega appoggia lo sbarramento nazionale, e Italia viva a fine gennaio fa saltare il governo». Voci che Renzi liquida con una risata: «Ma che cazzate!». Intanto però fa sapere che lunedì interverrà in Senato sulla manovra, e invita sornione ad ascoltarlo: «Tirerò un paio di colpi al premier», dice.
In ogni caso l'intesa sulla legge elettorale è ancora tutta da costruire: «Va trovata in tempi brevi, entro metà gennaio», incalza Zingaretti, consapevole che l'equilibrio di governo è talmente fragile che andare oltre potrebbe rivelarsi impossibile. Per questo incita i suoi, avvertendo gli alleati: «Basta giocare di rimessa e vivacchiare. Non siamo la fanteria obbediente di chi grida più forte», siano i grillini o i renziani. «La strada del governo - aggiunge - va condivisa come una cordata». A Conte ricorda che è lui ad avere «l'onere di guidarla». E agli alleati «chiediamo lealtà. Perché anche la pazienza ha un limite. Basta scaricare i problemi interni sull'intera maggioranza». Il messaggio è chiaramente diretto a Di Maio, alle prese con un partito allo sbando. Come riconosce lo stesso premier Conte, con un omaggio al partito di Zingaretti: «In questo momento il Pd esprime una maggiore compattezza e unità di fronte a un movimento sottoposto a fibrillazioni» come quello della Casaleggio.
Ma l'ottimismo della volontà non abbandona il premier, che per lunedì organizza un vertice con cui pensa di «rilanciare» la maggioranza, aprire la «fase due» del suo governo e scrivere un'agenda densa di «riforme strutturali» per i prossimi lustri. Auguri.
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