Il Pd scopre la dittatura coreana di Renzi

Il leader impone l'Italicum alla minoranza che non vota. E Fassina lo accusa di gestire il partito come il Pc di Pyongyang

Roma«Ai ricatti di chi minaccia di affossare l'Italicum col voto segreto neanche rispondo», dice Matteo Renzi a muso duro alla minoranza Pd. La legge elettorale è «il punto chiave» di questa fase politica, e va votata così com'è. Alla Direzione del Pd la linea del segretario passa all'unanimità: la fronda ha alla fine deciso - come al solito - di non partecipare al voto per non dividersi e non contarsi. E Stefano Fassina lamenta «evitiamo che il Pd abbia un tasso di conformismo superiore al partito comunista nordcoreano».

Il premier ricorda di aver già accettato «molti punti di compromesso» chiesti dalla fronda interna in questi lunghissimi mesi di tira e molla: ora basta. «Sarebbe un errore clamoroso e un azzardo riaprire la partita rimandando la legge al Senato, vorrebbe dire ricominciare il gioco dell'oca tornando alla casella di partenza». Dunque entro maggio «va messa la parola fine» e l'Italicum va votato definitivamente alla Camera, senza «ritocchi» ulteriori. E su questo «mi permetto di chiedere la fiducia, tra noi». Quanto alla fiducia in Parlamento, «ne parleremo», dice il premier lasciando aleggiare la minaccia ma senza troppa convinzione: la sua idea è che, alla fine, i dissidenti del Pd saranno non più di qualche decina. I suoi ne calcolano al massimo 30: non abbastanza da incrinare la sua solida maggioranza a Montecitorio. Renzi non concede nulla alla minoranza interna, ben consapevole che nel gioco al rialzo del fronte anti-renziano la legge elettorale è solo uno strumento per cercare di mettere in difficoltà lui e il suo governo. E che dunque accettare nuovi «ritocchi» vorrebbe dire far finire l'Italicum in un cul de sac.

La minoranza Pd era consapevole che si sarebbe trovata davanti ad un secco «no», e ha passato tutta la mattina a riunirsi e dibattere sul che fare: non andare, andare e non votare, votare no, astenersi, intervenire in massa e poi uscire in fila indiana, non intervenire, fare un solo intervento «a nome di tutte le anime» (Civati), e via elencando. Alla fine hanno deciso di andare e ogni componente ha espresso la propria posizione, differenziandosi dalle altre. L'intervento più dolente è stato quello del capogruppo Roberto Speranza, che si è detto «totalmente d'accordo» con il premier sulla centralità delle riforme: «abbiamo fatto benissimo ad avviarle e dobbiamo andare fino in fondo», e va bene anche «andare avanti a maggioranza», ma «c'è un rischio enorme di spaccatura del Pd» che va sventato. E il capogruppo si dice pronto a «mettere a disposizione» il proprio mandato per «impedire la rottura e cercare fino all'ultimo una mediazione». Ma la sua Area Riformista, spiegano i suoi, «vuole restare con tutti e due i piedi dentro il Pd e a sostegno del governo». Non è certo da lì, dunque, che arriveranno problemi per Renzi. «La linea dura di Bersani ci ha trascinato in un vicolo cieco», lamentano. Il fronte dei duri invece parla con Fassina, Cuperlo, D'Attorre (quello che il premier ha accusato di fare «ricatti»). Cuperlo lamenta che il premier accusi la minoranza di «sabotaggio»: «Fidati del tuo partito e dei tuoi parlamentari, ne uscirai rafforzato», dice tentatore, ma senza convincere granché Renzi. Poi sul podio sale il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti e, modello Kill Bill, inizia a menare fendenti alla fronda interna e alle sue incoerenze, ma anche al premier che con loro ha trattato «fin troppo», peggiorando la legge.

Ricorda a Bersani - che ora dice che voterebbe «subito» il Mattarellum - che quando lui presentò alla Camera una mozione pro-Mattarellum Bersani fece votare contro, e a D'Alema (che bolla il referendum sulle riforme promesso da Renzi come «un plebiscito») che la sua Bicamerale prevedeva esattamente la stessa cosa. «Dite che il voto in Direzione è inutile perché tanto Renzi ha la maggioranza: evidentemente è utile solo quando la avete voi». Applausi ma anche facce livide in platea.

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