«Ammazzano, violentano, fanno a pezzi e lo Stato italiano non fa nulla. Sono quattro anni che aspetto giustizia». La rabbia e le urla di Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, uscita visibilmente scossa dal Palazzaccio di Piazza Cavour a Roma, una volta tornata a casa hanno lasciato il posto alle lacrime.
Ieri, dopo quattro anni di battaglie legali, pensava che fosse arrivata finalmente la resa dei conti con Innocent Oseghale, il nigeriano accusato dell'omicidio della figlia diciottenne. Invece la Suprema corte ha deciso di disporre un processo d'appello bis solo in merito all'aggravante della violenza sessuale nei confronti dell'assassino. Questo significa che la condanna definitiva per il nigeriano, che anche la Cassazione ha ritenuto colpevole del delitto, verrà determinata dall'esito del nuovo processo d'appello, che verrà celebrato a Perugia, solo con riferimento all'accusa di violenza sessuale.
Qualora i giudici di secondo grado non dovessero ritenerlo responsabile dello stupro, la pena finale potrebbe essere diversa da quella del carcere a vita. «Questa decisione non è una novità per noi, la sensazione era nell'aria - commenta il legale della famiglia della vittima, l'avvocato Marco Valerio Verni - la Procura di Macerata non ha mai focalizzato la patologia di Pamela e se questo punto fosse stato approfondito, anche il profilo della violenza sessuale sarebbe stato blindato. La sentenza di oggi comunque ci dice che lei non è morta per overdose ma per le coltellate ricevute». «La mamma è molto delusa, per lei questo è un supplizio, la famiglia si aspettava il massimo della pena - ha aggiunto - È una sentenza che ci lascia l'amaro in bocca, oggi speravano arrivasse la parola fine».
«Se a Perugia non verrà ritenuta sussistente l'aggravante della violenza sessuale, la pena potrebbe scendere a 30 anni», puntualizzano i legali della difesa, Umberto Gramenzi e Simone Matraxia. Tutto da rivedere, quindi, sulla permanenza di Oseghale in carcere. Ieri mattina in udienza il sostituto procuratore generale Maria Francesca Loy aveva chiesto la massima pena e di dichiarare inammissibile il ricorso presentato dalla difesa, che invece è stato parzialmente accolto dai supremi giudici.
Pamela si era allontanata dalla comunità di recupero per tossicodipendenti e i suoi resti furono ritrovati chiusi in due trolley a Pollenza, vicino a Macerata, il 30 gennaio del 2018. Il nigeriano l'ha uccisa, ha smembrato il suo corpo e ripulito quel cadavere già fatto a pezzi, nel tentativo di cancellare ogni traccia di sé. Se Pamela abbia ceduto a lui sotto l'effetto della droga o se lui l'abbia presa con la forza, allo stato dei fatti, sembra umanamente irrilevante perché addosso aveva il Dna dell'assassino. Ma per la giustizia il discorso è diverso.
«Ci sono altre persone coinvolte che purtroppo sono state tutte archiviate, mi aspetto che le istituzioni vogliano riaprire le indagini sui complici di Oseghale», aveva detto poco prima dell'udienza Alessandra Verni. Invece ha dovuto accusare l'ennesimo colpo.
Striscioni e lenzuoli stesi in piazza Cavour con scritto «giustizia per Pamela Mastropietro», «Dov'è finita l'umanità» e ancora «Pamela grida giustizia e noi siamo la sua voce!» sono rimasti lì, mentre la donna si è allontanata, abbracciata e sostenuta come sempre da amici e parenti.
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