Recep Tayyip Erdogan, alla fine, stupisce tutti. Come il suo Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) abbia conquistato un otto per cento in più rispetto al 41 previsto dai sondaggi è uno di quei «misteri turchi» che nessuno, all'indomani del voto, sa spiegare. Certo il bisogno di stabilità, dopo cinque mesi vissuti pericolosamente, gioca la sua parte. E di pari passo ha funzionato la «strategia della tensione» innescata dopo la sconfitta del 7 giugno scatenando una nuova guerra ai curdi e puntando sui voti garantiti, storicamente, dalle tensione nel sud est del Paese. In questo modo il «Sultano» ha sicuramente strappato quattro punti all'Mhp, la destra nazionalista dei «lupi grigi» precipitata dal 16,3 dello scorso giugno a meno del 12. Ma gli altri quattro punti percentuali da dove saltano fuori? E come mai nel frattempo l'Hdp, il partito su cui a primavera scommettevano opposizione ed elettori curdi portandolo per la prima volta in Parlamento con oltre il 13 per cento dei voti, perde più di tre punti? In questo mare di dubbi, l'unica cosa certa è che ora il presidente può permettersi tutto e di più.
Ieri il settimanale Nokta si è visto notificare l'ordine del tribunale penale di Istanbul di ritirare tutte le copie del numero in edicola con in copertina un ritratto di Erdogan e la scritta «2 novembre, inizio della guerra civile in Turchia». Nel frattempo tutti i vertici della testata, dal direttore Cevheri Guven all'amministratore delegato, Murat Capan, sono passati dalla redazione alla gattabuia.
Ma il fronte su cui il Sultano non vede l'ora di alzare la voce è quello internazionale. Il primo a farlo capire è lui. «In questo momento - ripeteva ieri - il potere è nelle mani di un partito che ha guadagnato il 50 per cento... questo fatto merita il rispetto di tutto il mondo, anche se non mi sembra di aver ancora visto questa maturità». Erdogan fa intendere, insomma, di non esser più disposto a tollerare le critiche di una comunità internazionale che lo accusa di travalicare i poteri presidenziali gestendo un regime intollerante ed illiberale ed utilizzando polizia e sistema giudiziario per mettere a tacere oppositori e informazione.
Proprio per questo i primi a dover preoccuparsi dell'euforia accentratrice del Sultano siamo noi europei. Prigionieri di un'Unione Europea fiacca e inerte continuiamo a far gli interessi di un Obama interessato soltanto a garantirsi la permanenza di Ankara nella Nato per contrapporsi alla Russia di Vladimir Putin e garantire appoggi ai nemici della Siria di Bashar Assad. Nel nome di questa realpolitik abbiamo permesso a Erdogan di spalancare le sue frontiere garantendo libero passaggio ai profughi diretti in Europa. Una manovra indispensabile, dopo la sconfitta elettorale di giugno, per alleggerire il malcontento popolare generato dalla presenza di due milioni di rifugiati siriani. Nella stessa logica abbiamo, in passato, consentito alla Turchia di far passare sul proprio territorio cinquemila jihadisti «europei» diretti verso le basi siriane dello Stato Islamico. Per lo stesso motivo il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha, nei giorni scorsi, segretato un rapporto sulla Turchia, prodotto dalla stessa Commissione Europea, in cui si denuncia l'adozione da parte di Ankara di «leggi in materia di Stato di diritto, libertà d'espressione e d'associazione contrarie a tutti gli standard europei».
Di questo passo siamo arrivati alla vergogna dello scorso 18 ottobre quando la Cancelliera Angela Merkel, in visita ad Ankara, non ha battuto ciglio davanti a un Erdogan intento a ribadirle di non voler far niente per fermare l'immigrazione se Bruxelles non gli verserà prima tre miliardi a titolo di risarcimento spese e non s'impegnerà a garantire i visti a tutti i cittadini turchi diretti in Europa. Se rispondevamo così a un Erdogan sul viale del tramonto c'è da chiedersi come reagiremo di fronte ad un Sultano tornato, da ieri, forte ed egemone.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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