La perfida strategia della delegittimazione

I candidati che vengono proposti da sinistra, in qualsiasi scadenza elettorale, hanno incorporato il bollino della sacralità

La perfida strategia della delegittimazione

I candidati che vengono proposti da sinistra, in qualsiasi scadenza elettorale, hanno incorporato il bollino della sacralità. Non si deve neppure dubitare del loro valore, se vengono selezionati significa che sono da votare e basta, senza inutili distinguo.

Questa è l'Italia. Quella dove, invece, i nomi di centrodestra hanno sempre falle, macchie, qualcosa di sconveniente. Per settimane hanno strillato su Berlusconi «impresentabile» o «divisivo». Poi hanno tirato il fiato in attesa della vittima di turno da sfiancare con i raggi X. Basta vedere il gelo con cui è stata accolta la terna del centrodestra (Pera, Moratti, Nordio). Salvini, Meloni e Tajani si sono prodigati a sottolineare la loro estraneità ai partiti, i rispettivi curricula straordinari al vertice dello Stato o dell'imprenditoria privata. Non ce n'era bisogno, ma da sinistra non è un arrivato un plauso o una sola disponibilità a vedere in uno dei tre il futuro presidente della Repubblica.

E all'indomani il gioco dell'esame del sangue ha subito spostato l'obiettivo appena si è affacciata la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. È rimbalzata un'intervista alla senatrice a vita Liliana Segre, che ha auspicato un presidente che sappia coltivare i «valori antifascisti». Si riferiva alla seconda carica dello Stato? Oppure alla scontata vulgata progressista secondo cui chi arriva dal centrodestra è automaticamente escluso dal circolo democratico in quanto fascista, post fascista, nostalgico fascista o alleato dei fascisti.

Questa è l'arma antica, ormai arrugginita: io sono democratico, tu non sei degno di incarnare i valori repubblicani. C'è anche un altro strumento, più subdolo: il dileggio o l'evocazione dell'ombra che si inghiotte il fascio di luce. Così leggiamo su Repubblica che la scorta della Casellati tamponò in Veneto quella del capo dello Stato Mattarella, mentre una pensionata con la Panda dovette buttarsi fuori strada «per evitare il crash». Insomma, un testacoda stradale spacciato come uno scheletro nell'armadio di una figura che ambisce alla più alta carica repubblicana. E se qualcuno non l'avesse colto, la fotografia di accompagnamento è la presidente del Senato che saluta con un bacio sulla guancia l'ex collega di Csm Luca Palamara, poi diventato l'uomo nero dello scandalo magistratura. «Se la Casellati non andrà bene domani alla sinistra per essere votata, non andrà bene neanche dopodomani» è sbottato ieri su La7 il senatore Fdi La Russa. Il senso è la decennale contrapposizione tra aree politiche e culturali, dove quella liberale e moderata resta figlia di un dio minore. Meno colti, potenzialmente eversivi, senza senso dello Stato, incapaci di esprimere una candidatura limpida.

Anche questa elezione al Quirinale non è

sfuggita agli antichi codici della delegittimazione. Da quando è sparita la Dc, gli eredi del Pci considerano il Colle proprietà privata. E guai a chi si avvicina alla recinzione elettrificata. Partono scosse e proiettili.

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