Afghanistan in fiamme

"Piango gli amici al di là di quel muro"

Il generale: provo angoscia per chi non è riuscito a lasciare l'aeroporto di Kabul

"Piango gli amici al di là di quel muro"

Il generale Luciano Portolano, veterano delle missioni più dure, racconta al Giornale la drammatica evacuazione degli afghani. Da Roma, al Comando operativo di vertice interforze, ha gestito in prima persona la difficile operazione dormendo poche ore per notte.

Come si è arrivati all'evacuazione all'ultimo minuto?

«Era stato previsto il trasferimento dei nostri interpreti e collaboratori da Herat a Kabul ed in Italia con aerei civili, ma la situazione è precipitata in tutto l'Afghanistan. Già alla cerimonia dell'ammaina bandiera ad Herat alla presenza del ministro della Difesa Guerini i talebani erano all'interno dell'area che ci era stata assegnata».

Quando i talebani sono arrivati a Kabul cosa avete fatto?

«Ci siamo trovati in una totale emergenza con dei piani di evacuazione che non riflettevano più la realtà sul terreno. Abbiamo rimodulato tutto facendo partire l'operazione Aquila Omnia».

Chi e quanti abbiamo messo in salvo?

«È diventata un'evacuazione di massa che ha portato via non solo interpreti ed ex collaboratori, ma attivisti, sportivi, intellettuali, organizzazioni non governative, religiosi. Sono stati trasferiti in Italia 4980 afghani».

L'aeroporto era circondato da una massa umana di 20mila persone in fuga. Come avete affrontato il caos?

«È stato un momento critico. Siamo riusciti ad aprire un corridoio umanitario, dedicato, verso l'Abbey gate (uno dei cancelli dello scalo, nda), dove purtroppo è avvenuta la strage del terrorista suicida».

Come portavate dentro gli afghani?

«Attraverso le liste di nomi che avevamo e altre che ci sono arrivate contattavano anche da Roma i capi dei nuclei familiari da mettere in salvo con gli interpreti già arrivati in Italia che hanno lavorato al mio fianco. Personalmente mantengo i contatti con 200-250 capi famiglia».

Via whatsapp?

«Ho tutti i messaggi che ci siano scambiati con le paure, i timori, le emozioni, le angosce. Dovevamo guidarli fornendo indicazioni su dove andare e gli orari di accesso per favorire l'estrazione da parte delle squadre sul posto».

In pratica come facevano?

«I nostri uomini con il generale Faraglia li prendevano di peso da un canale, che arrivava fino al gate, una fogna, e li tiravano letteralmente su dal muro di cinta».

Quali casi non dimenticherà mai?

«Ufficiali che erano arruolati nelle forze speciali o interpreti che inviavano comunicazioni drammatiche. Qualcuno si nascondeva nei pozzi con la famiglia, altri nei forni per sfuggire ai talebani. Poi in prossimità del cancello d'ingresso si stabiliva il contatto a tre: noi da Roma, gli afghani da salvare, il personale sul muro per portarli dentro».

E c'erano anche bambini.

«Tanti bambini, anche di sei mesi rimasti nella prossimità del cancello d'ingresso per giorni. Ne abbiamo salvati 1400».

E una volta in salvo qual è stata la reazione?

«Non ha prezzo la gioia dei messaggi di ringraziamento degli afghani che ti scrivono ci avete salvato la vita. La soddisfazione più grande? Essere chiamato brother, fratello, dagli afghani».

Quanti sono rimasti indietro?

«Se contiamo gli studenti, le organizzazioni non governative, altri afghani in pericolo. Direi altrettanti rispetto a quelli evacuati».

E adesso cosa bisogna fare?

«Nessuno verrà lasciato indietro, ma l'importante è non isolare l'Afghanistan. Stiamo creando un database di tutti quelli che hanno ancora bisogno del nostro aiuto. Si sono aperte delle vie di fuga con il Pakistan e Iran».

Quando lo Stato islamico ha attaccato dov'erano i militari italiani?

«Esistevano degli allarmi molto precisi su un imminente attentato. Qualche minuto prima erano proprio nella zona del canale dove è avvenuta la strage. Stavano portando via gli afghani tirati dentro dalla bolgia per scortarli al nostro hangar».

Cosa le rimane di queste settimane di fuoco?

«Da una parte la gioia di avere potato in Italia dei collaboratori che avranno una nuova vita, ma dall'altra l'angoscia di non avere potuto fare di più.

Lo dico con un nodo alla gola: al di là del muro dell'aeroporto sono rimasti tanti miei amici».

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