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Quel piano del Pd per tornare alla carica sul ddl Zan

A maggio, il partito guidato da Enrico Letta riesumerà la battaglia sul disegno di legge contro l’omotransfobia: ecco come

Quel piano del Pd per tornare alla carica sul ddl Zan

“Partito Democratico, fra poco riparte lo Zan Zan”. La battutina che circola fra gli addetti ai lavori è terra terra, ma rende l’idea: a maggio, il partito guidato da Enrico Letta riesumerà la battaglia sul disegno di legge contro l’omotransfobia e l’abilismo che deve il nome al suo primo firmatario, il deputato padovano Alessandro Zan (già in Sel, entrato nel Pd dopo aver votato a favore del governo Renzi nel 2014). Lo strumento per rilanciare il Ddl Zan saranno le “Agorà”, raduni telematici o in presenza che i Dem hanno escogitato l’anno scorso nel tentativo di richiamare anche soggetti esterni, sulla base di una “Carta dei valori” di generica sinistra moderata. Gli appuntamenti sono previsti in cinque capoluoghi (Milano, Firenze, Taranto, Palermo e, naturalmente, Padova). Il 21 dicembre scorso, in diretta Instagram assieme a Zan, Letta aveva infatti precisato che le riunioni sono rivolte “a tutto il campo largo progressista”, non erano “una cosa targata”. In realtà, ovviamente sono organizzate dall’alto in vista della campagna elettorale dell’anno prossimo, quando si voterà alle politiche. Momento della verità per tutti, entro il quale il Pd ha il bisogno vitale, dopo la trasversale “unione sacra” di sostegno al governo Draghi, di sventolare una propria bandiera identitaria. “Siamo stati accusati di volerne fare una bandiera. Per noi è un dovere storico quello di far sì che il nostro Paese riesca a diventare un Paese più moderno”, aveva già messo le mani avanti il segretario. Al di là della scontata propaganda, la sconfitta del 27 ottobre in Senato, dovuta alla famosa “tagliola” a scrutinio segreto (si parla di 20-30 franchi tiratori nelle file di Pd, M5S e Leu), era senz’altro bruciata parecchio.

“Oggi hanno vinto loro e i loro inguacchi”, aveva commentato Letta riferendosi agli infiocinatori di centrodestra. Tuttavia, i maligni potrebbero sospettare che l’indisponibilità a discutere sui punti più ideologici, a cominciare dalla definizione di “genere” come fluida auto-percezione personale, sia stata allora fatta diventare una condizione di principio per tenersi buona la proposta e rispolverarla dal cassetto in vista delle elezioni nel 2023. A confermarlo ci sarebbero i tempi: secondo l’articolo 76 del regolamento del Senato, un disegno di legge può essere recuperato tale e quale “sei mesi dalla data di bocciatura”. Cioè a fine aprile. Il Pd avrebbero voluto riattivare la macchina promozionale già a febbraio, ma la guerra in Ucraina ha costretto al rinvio. Ora è tutto pronto per il ritorno alla ribalta del cavallo di battaglia Lgbt, su cui Letta punta le sue carte, guerra o non guerra. Ma a occuparne i pensieri è un altro fronte: la legge elettorale. Dopo una lunga adesione al maggioritario, anche il Pd è ormai compatto sull’appoggio allo storico vessillo del Movimento 5 Stelle, un sistema di ripartizione proporzionale con sbarramento al 5% che ha assunto le sembianze del cosiddetto “Brescellum”, dal cognome del presidente della commissione Affari istituzionali della Camera, il grillino Giuseppe Brescia. Un modo non solo per cementare nella sostanza il rapporto con il movimento di Giuseppe Conte (che d’altro canto, per ragioni di sopravvivenza alle urne dovrà, quanto meno esteriormente, marcare le differenze con l’alleato-rivale), ma soprattutto per incanalare il voto del 2023, così da cristallizzare il più possibile l’attuale panorama politico.

Il perché è presto detto: mentre un meccanismo maggioritario, a maggior ragione se puro (e non come il vigente Rosatellum, che è misto), premia le coalizioni e quindi spinge a unire i partiti fin dall’inizio, il proporzionale permette a ciascuno di condurre una campagna accentuando la propria diversità dovendo solo poi, dopo le elezioni, e non prima, combinare le alleanze in parlamento. Il che, tradotto in termini d’interessi di bottega, significa che Letta, così come tutte le altre forze che compongono la maggioranza di Draghi, sta già mettendo nel conto che il post-elezioni vedrà probabilmente un Draghi bis, formula in grado di metterle in relativo accordo (sia pur, in aula, con pesi rovesciati nel centrosinistra: il Pd trainante, il M5S minoritario). Tutte, eccetto una: la Lega. Matteo Salvini, infatti, è tuttora attestato sul maggioritario. E pour cause: con un premio di maggioranza, vede la vittoria più vicina. Idem, dai banchi dell’opposizione, Fratelli d’Italia, per il motivo molto semplice che Giorgia Meloni punta a un centrodestra unito quanto prima. La soluzione si troverà in estate, passate le amministrative del 18 giugno. Per l’intanto, il Partito Democratico toglie dalla naftalina lo Zan.

Bandierina ideale per rassicurare i suoi di aver detto, alla Nanni Moretti, “qualcosa di sinistra”.

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