Mi piace molto l'Italia che si è manifestata in questi giorni intorno alla malattia di Silvio Berlusconi. Non c'è stata melensaggine, finzione, ma la percezione che stava male uno di casa. Qualcuno con cui magari litigare, con cui ci si era mandati a quel Paese, oppure di cui si era affascinati e devoti. Uno di noi però. Ed esiste qualcosa di più importante che ci unisce ed è più forte del pensarla in politica allo stesso modo.
La civiltà si fonda su questo. Si chiama pietas. Virgilio a nome dei nostri antichi la vide coincidere con il «pio Enea». Egli obbedisce a qualche cosa che è prima di lui, esistono cose che sono persino più vere e potenti della vittoria in guerra. Così i greci che hanno conquistato Troia ma si sono permessi di uccidere i figli davanti al loro padre Priamo, sono meschini, hanno commesso empietà, non hanno avuto rispetto di quelle due o tre cose che non sono lasciate all'arbitrio del vincitore.
La pietas si è riversata su Silvio Berlusconi, e non è stata obbedienza a una convenzione sociale, un prezzo pagato al conformismo delle buone maniere, ma il riconoscimento dell'essenziale.
Cito Dario Fo, uno che è stato espressione dell'antiberlusconismo militante, un premio Nobel della letteratura e dello sbeffeggiamento dell'avversario. Eppure si è inchinato. «Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio» (Manzoni) ha espresso una previsione che in realtà mi piace intendere sia un desiderio: «Ce la farà benissimo a superare il momento, ha una forza d'animo e fisica straordinaria». Così Luigi Di Maio, uno del direttorio 5 Stelle, è arrivato a definirsi «sgomento» per il rischio mortale corso da Berlusconi che ha insistito a far comizi, ad andare a votare, a farsi vedere ridanciano in piazza, per giocare con fierezza la sua partita.
Matteo Renzi si è tenuto in costante contatto telefonico, preoccupandosi per la sorte dell'avversario. Non bisogna mai smettere di ricordarci chi siamo, creature umane, piene di difetti, ma con una scintilla divina. Guai a spegnerla. E questo merito gliel'ha riconosciuto anche il suo più tosto avversario, quel Renato Brunetta che ha espresso due concetti e due sentimenti nella medesima giornata: la volontà di mandare a casa il premier con tutto il suo governo e la sua arroganza, e il grazie per la sincerità della sua vicinanza all'avversario che abbraccia.
Questo non significa che la politica sia una cosa di secondaria importanza, tutt'altro. È importante perché è grazie ad essa che sentimenti come questo possono essere più forti della barbarie. La battaglia politica, nella sua durezza, qualche volta nella sua tragicità, ha per scopo proprio questo: impedire che la politica sia tutto, si trasformi in applicazione di un'ideologia totalitaria.
Per questo stridono con l'umanità, e peccano di ybris - che è il contrario della pietas, ed è il disconoscimento delle leggi del cuore - coloro che hanno colpito con il pugnaletto dell'invidia anche in momenti così l'oggetto ventennale del loro disprezzo. Si è vista al lavoro questa viltà su certi giornali. Tutto questo invece non ha attecchito tra il popolo. Nei bar, negli uffici, sui tranvai non ho sentito parole risentite, menefreghiste o gaudenti per i guai di salute di Silvio Berlusconi.
In questo ritrovo un insegnamento. Per l'idea si può dare la vita, e non è affatto un sacrificio banale o stupido. Si può si. Anzi qualche volta si deve dare la vita: ma la propria, non quella degli altri. Per questo ammiriamo chi accetta di versare la sua esistenza, e qualche volta il sangue, per un ideale, anche se non è il nostro.
Si percepisce un onore, una dignità in questo votarsi alla propria causa che esige rispetto e persino condivisione. Per questo da amico di Berlusconi che non si è mai vergognato di esserlo, mi levo il cappello davanti a questa Italia, comunisti e grillini compresi. Sicuro che tra un attimo me ne pentirò, ma intanto dico grazie.
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