Un'inchiesta fatta al contrario, puntando ai presunti colpevoli prima ancora di avere scoperto il reato, e andando poi alla caccia di qualcosa da attribuire loro. Questa è stata l'indagine della Procura di Milano sulle tangenti che l'Eni avrebbe versato in Nigeria, azzerata dalla sentenza che mercoledì, dopo un processo durato tre anni, ha assolto tutti gli imputati: a partire dall'ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e dal suo successore Claudio Descalzi. A dirlo, puntando il dito contro i sistemi investigativi della Procura di cui anche lui ha fatto parte per dieci anni, è Antonio Di Pietro, il pm simbolo di Mani Pulite. «Fin da quando ho avuto modo di apprendere dell'esistenza di questa indagine e della metodologia utilizzata, ho avuto delle riserve», dice l'ex parlamentare, parlando dell'inchiesta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale sui vertici dell'azienda energetica di Stato.
Una sola concessione Di Pietro fa all'accusatore dell'Eni: «Ho rispetto personale per l'ex collega pm Fabio De Pasquale e sono intimamente certo della sua totale buona fede e del fatto fosse convinto della bontà dell'indagine che ha condotto». Ci mancherebbe altro, verrebbe da dire. Ma per il resto i giudizi di Di Pietro - affidati ad una lunga intervista all'Adnkronos - sono duri come sassi.
«In questi anni - spiega Di Pietro - ho molto riflettuto su questa inchiesta, anche perché riguarda persone che in qualche modo ho indagato anch'io a suo tempo»: il riferimento è a Scaroni, che «Tonino» arrestò per i reati commessi in Techint. «Si tratta di un'inchiesta indubbiamente interessante se la si osserva tentando di capire cosa avviene alle spalle. Il fatto in sé è un fatto che coinvolge Stati prima ancora che persone, e riguarda un ambito di primissima grandezza economico-finanziaria». Ma «dal primo momento, proprio perché conosco il modello di indagine posto in essere da una parte dei pm della procura della Repubblica, l'inchiesta mi ha lasciato molto perplesso».
É un attacco frontale, senza mezzi termini. Ero perplesso, dice lo scopritore di Tangentopoli, «e i fatti mi hanno dato ragione, perché si tratta di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta del colpevole di un reato certo, avvenuto. Tanto è vero che l'assoluzione è stata perché il fatto non sussiste».
A rendere grave l'accusa di Di Pietro ai colleghi è che in nessun articolo il codice prevede che una inchiesta possa nascere e venire condotta in questo modo. «Le attività di indagine dei pm hanno due livelli: primo, l'esistenza del reato, secondo, chi l'ha commesso. Ma se io mi metto a indagare prima su chi l'ha commesso senza accertare se il reato è stato commesso, ho creato di fatto una colpevolezza prim'ancora che ci sia». E purtroppo secondo Di Pietro il caso Eni non è un caso isolato: «Quel modello di indagine, che non riguarda certamente solo il procuratore De Pasquale, già da quando c'ero io in procura rappresentava una spaccatura che permane ancora all'interno non solo della procura di Milano ma del sistema complessivo dell'attività investigativa italiana.
Spaccatura che può essere risolta solo dal legislatore per evitare inchieste dagli effetti disastrosi e che dovrà dirimere una questione: quando deve intervenire il pm? Per accertare se è stato commesso un reato o per accertare, premesso che il reato è stato commesso, chi è il colpevole?»
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