A Gerard Piqué non sta bene nulla, nada de nada: non gli piace il primo ministro Mariano Rajoy: «Ha il livello che ha, va in giro per il mondo senza conoscere e parlare la lingua inglese». Non gli garba il presidente della Lega calcistica spagnola, Javier Tebas: «Ma vede quello che accade in campo o finge di non vedere?». Non gli sta bene la tribuna d'onore dello stadio Bernabeu di Madrid: «Guardateli bene, sono quelli che tirano le fila di questo Paese». Non gradisce gli arbitri che favoriscono il Real Madrid: «Fanno parte del giro e confermano quello che penso e quello che dico da sempre». Non ha rispetto dell'avversario madridista Arbeloa: «Non è un mio amico è un cono-cido (un cono-scente, ma cono sta per cogl..., ndr)». Dicono che abbia preso le distanze anche da Shakira, per la classica crisi del settimo anno. Carlo Ancelotti così lo ha definito: «Piqué? Si dovrebbe dedicare maggiormente al calcio e a giocare, più che a parlare dei suoi avversari. È migliore in campo che fuori».
Ieri, il pubblico della Ciudad Sportiva della federcalcio a Madrid, dove si sta allenando la nazionale di Spagna per la partita contro l'Albania, lo ha accolto con insulti, scherno, cartelli che lo invitano a lasciare il Paese, non soltanto la camiseta, la maglietta della nazionale e urlando, come provocazione ulteriore: «Viva la Guardia Civil».
Piqué spedisce messaggi dal ritiro, invita ancora a lottare per l'indipendenza. Dimentica i doveri di chi appartiene a un gruppo e di questo dovrebbe condividere la disciplina. Ma Gerard Piqué ha capito che il tempo delle mele per lui è finito e si pone alcune domande: perché giocare per una Patria che lui non sente? Perché battersi assieme a sodali che lui non rispetta? Perché correre verso il Mondiale in Russia già sapendo di essere un nemico, odioso e odiato dalla maggioranza dei tifosi spagnoli? Forse è meglio offrire l'immagine del santo martire.
Piqué è la furia rossa di Catalogna, crede di essere e rappresentare il simbolo esclusivo dell'indipendenza «barcelonista», più di Pep Guardiola, o di qualunque altro calciatore e sportivo di una terra ricca e furba che vuole staccarsi dal resto del Paese. Il suo «catalonismo» non è soltanto manifesto ma astuto, interessato. Piqué ha lanciato la sfida prima delle votazioni, Piqué ha pianto dopo le votazioni, Piqué è un uomo solitario più che solo. Fa parte di una nazionale che per lui non rappresenta una nazione. Veste una maglietta dalla quale vorrebbe strappare il colore il simbolo del Paese, lui preferisce la senyera, la bandiera catalana, quattro fasce rosse su campo dorato, memoria della Corona di Aragona contro la rojigualda ufficiale della Spagna, di uguali colori ma diverso significato. Prima di Piqué altri catalani hanno onorato l'impegno, anche da capitani, come Puyol, Xavi, unendosi alla squadra, lasciando da parte orgoglio, idee e ideologia, la partita prima del partito.
Piqué piange per essere considerato un eroe.
Chiede di essere mandato via ma non abbandona, è un comportamento meschino, il suo, ma vuole passare per martire e vittima. Se davvero soffre per la sua gente picchiata e oltraggiata allora dichiari ufficialmente il ritiro dalla nazionale.La Spagna del football continuerà la propria storia. Senza Piqué e le sue lacrime catalane.
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