Un nostro spiritoso amico e collega qualche giorno fa ha postato su facebook il seguente paradossale invito: «No, ma postatela una foto delle vostre pizze e delle vostre torte fatte in casa». Nel giro di pochi minuti la bacheca del malcapitato è stata sommersa di commenti, per la gran parte corredati da foto, che documentavano come in tutto il Paese in quel momento si stessero impastando, infornando, scrutando e mangiando vari progetti di felicità in teglia. Prodotti homemade spesso attraenti, altre volte francamente inguardabili, ma fa nulla.
La piccola storia racconta intanto che il sense of humour non è moneta corrente al momento. Ma spiega soprattutto come forse il cibo stia tenendo in piedi questo Paese in questa guerra senza bombe che ci rende reduci prima ancora di esserlo. Ognuno nel suo rifugio antiatomico iperconnesso passa il suo tempo a pensare cosa cucinare stasera a cena e poi domani a pranzo e poi domani a cena, ché la difficoltà a fare la spesa spinge a una programmazione anticipata così massaia-anni-Cinquanta. L'Italia attualmente è una Repubblica fondata sull'alloro. E sull'origano.
Del resto nelle tempeste ciascuno sguaina il fondo del suo animo, e i popoli non fanno eccezione. In Italia il cibo è tessuto connettivo, strumento di socialità e comunicazione dapprima che esistessero Facebook e Instagram (e non a caso questi ne sono stati invasi), e ci aggrappiamo a esso come a un salvagente. Abbiamo più tempo e ne riserviamo una parte consistente allo spadellare, un po' per celia un po' per non morire. Una cucina emergenziale nello spirito, nelle tecniche e negli ingredienti, ché non è tempo di esperimenti e di prove tecniche di avanguardia. Anzi, vince la retroguardia che fa tanto comfort food. Pizze, zuppe, minestre, biscotti, torte. Ci consentiamo anche ricette elaborate, di quelle scritte a mano sul ricettario di nonna Rosa, che quando eravamo liberi snobbavamo e semmai riservavamo alle uscite al ristorante: fare un ragù vuol dire stare ore a farlo sobbollire (come dicono a Napoli «pippiare»). Se non ora quando? Certo, c'è il rischio di ingrassare in questo Grande Fratello Virale. E allora si seguono le regole classiche (pochi zuccheri, pochi grassi) e si dedica tempo a preparare la tavola, in modo che la liturgia riempia tempo e occhi, salvando la pancia.
Spesso ricorriamo a tutorial trovati su Youtube che ci consentono di seguire passo passo la fattura di una ricetta di quelle che avremmo voluto fare da tempo. Spesso questi video sono girati da chef di vaglia, che li hanno preparati ad hoc per questi giorni di reclusione. A Milano una quarantina di cuochi, tra i quali il neotristellato Enrico Bartolini hanno preparato una serie di videoricette (con sottotitoli in inglese) indossando il grembiule col claim Keeps on Cooking, che si può acquistare versando il ricavato all'ospedale Sacco.
Ecco l'alta cucina, Le stelle stanno a guardare e chi può si dà da fare come può, tra solidarietà e bisogno di restare sulla breccia. Carlo Cracco spignatta per gli operai che lavorano all'allestimento del nuovo ospedale in Fiera a Milano, i fratelli Cerea, tristellati da Vittorio a Brusaporto, gestiranno la mensa dell'ospedale da campo all'Ente fiera della martoriata Bergamo. A Roma un drappello di chef tra quali i fratelli Roscioli, Arcangelo Dandini e Giuseppe Lo Giudice hanno cucinato per medici e infermieri dello Spallanzani. E il più grande pizzaiolo italiano, Franco Pepe di pepe in Grani di Caiazzo, prepara pizze per i clochard casertani.
Che poi ci sarebbe anche da immaginare il futuro dell'alta cucina dopo che tutto questo bailamme sarà un ricordo (ma accadrà?).
Avranno ancora un senso certi eccessi creativi, certi sbotti onanistici di ego? La gente sarà disposta a pagare conti da 250 euro a coperto? Immaginiamo che quando i ristoranti riapriranno ci sarà chi correrà ad affollarli in crisi di astinenza, ma anche chi non avrà un euro in saccoccia. Probabile che si dovranno inventare nuovi format, nuove formule, nuove filosofie. Ma è un futuro che appare non troppo vicino. Per ora accontentiamoci di una margherita non troppo tonda, orsù.
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