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Pm contro Berlusconi. L'assalto dura dal'94

Il caso Palamara conferma: certi giudici fanno politica e il Cavaliere ancora oggi ne subisce la persecuzione.

Pm contro Berlusconi. L'assalto dura dal'94

Avevo ragione io. Questo si sta probabilmente dicendo Silvio Berlusconi in queste ore, ripensando a un quarto di secolo di battaglie contro le «toghe rosse», la «magistratura politicizzata», gli «impiegati dello Stato pagati con i soldi dei cittadini che tramano contro il presidente del Consiglio». Perché ad emergere dalle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia sul Csm è il corpo concreto di quello che finora era solo uno spettro: l'attacco concordato al potere politico, l'uso delle inchieste per colpire gli avversari di schieramento. Quando ha letto di come Luca Palamara, leader della corrente di Unicost, pianificava con i colleghi l'offensiva contro Matteo Salvini, il Cavaliere ha vissuto come un flashback i ventisei anni di inchieste contro di lui. Ventisei anni durante i quali ogni volta che ha accusato le toghe di dargli la caccia per fini politici è stato accusato di voler delegittimare la magistratura. Che oggi viene invece delegittimata, e in modo assai più efficace, dalle verità che vengono a galla sui suoi esponenti più in vista. Giochi di potere, correnti, volgarità, trame in cui si calpesta, in nome della caccia al nemico politico, il giuramento di fedeltà alla Costituzione.
Per andare all'attacco di questo sistema, come è noto, Berlusconi non attese di ricevere il primo avviso di garanzia e neanche di diventare premier: il 9 marzo 1994 tuonò contro le perquisizioni continue ai danni di Fininvest, «per il fatto che il suo proprietario sia sceso in politica, non c'è nessun altro motivo, una cosa vergognosa indegna di un paese civile».
Da allora sono passati un numero incalcolabile di avvisi di garanzia, inchieste, processi, una sola condanna: e non è ancora finita, perché per i cascami del caso delle escort il Cav, a 84 anni, è ancora sotto processo a Milano, a Siena e Bari. Durante tutti questi anni, il tema della persecuzione organizzata è tornato a galla negli sfoghi del fondatore di Forza Italia. Dall'inchiesta sula Guardia di finanza al caso Sme, dal lodo Mondadori al Rubygate fino al capitolo più incredibile, le indagini su mafia e stragi, ogni volta che Berlusconi ha rinunciato alla diplomazia (ed è accaduto spesso) ha dato la sua spiegazione: non siamo davanti a singoli eccessi di magistrati in cerca di notorietà, ma a un attacco organizzato da parte di correnti della magistratura che non si rassegnano al cambiamento. La sua bestia nera, sin dall'inizio, è stata Magistratura democratica, la corrente dei giudici di sinistra, e i suoi rapporti d'acciaio con il Pci e poi con Pds e Pd.
Proprio questo filo rosso Berlusconi e il suo staff, con in testa Niccolò Ghedini, hanno visto emergere con chiarezza grazie alle indagini di Perugia sul caso Palamara e il marcio nel Consiglio superiore della magistratura, dove deputati del Pd e Italia viva decidono sottobanco la spartizione di procure e tribunali. E nelle chat che oggi vengono alla luce, nella disinvoltura dei giudizi, ha ritrovato la virulenza con cui nelle varie mailing list delle loro correnti, venute periodicamente alla luce in questi anni, magistrati di tutta Italia chiamavano alla «resistenza civile» contro il regime berlusconiano.
C'è, al fondo, anche l'amara convinzione dell'ex premier di avere visto nel giusto anche nei giudizi più sferzanti, come quando nel 2003 definì i magistrati «mentalmente disturbati, altrimenti non potrebbero fare quel lavoro». È sconcertato dall'opportunismo, dalle slealtà e dalle faide interne raccontate impietosamente dal trojan installato sul telefono di Palamara, dalle cattiverie contro la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, colpevole solo di essere di Forza Italia. Si domanda, forse, dove fosse il presidente del Csm, ovvero il capo dello Stato, mentre tutto questo avveniva. Ma adesso capisce bene perché un rapporto meno conflittuale tra centrodestra e magistratura fosse un sogno irrealizzabile: il leader del Pd, Nicola Zingaretti, con Luca Palamara ci tubava al telefono.

Lui, il Cavaliere, con un magistrato così potente non ci ha mai parlato.

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