Cronaca giudiziaria

Ponte, l'ex uomo dei Benetton. "Sapevo dei rischi, restai zitto"

L'ex ad della holding sul crollo del Morandi: "Non ho fatto nulla, è il mio rammarico". Dubbi delle difese: contraddizioni

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Quasi una confessione in diretta, un racconto che un testimone porta nell'aula del processo per la tragedia del Ponte Morandi. Una confessione ancora più impressionante perché Gianni Mion, il manager che viene interrogato ieri a Genova, non è finora tra gli indagati. Nell'elenco dei 71 uomini che la Procura accusa di avere, in un modo o nell'altro, in questa o quell'epoca, contribuito a causare la tragedia del 14 agosto 2018, Mion non c'è. Eppure sceglie lui di accusarsi da solo. Come per togliersi dal petto un peso troppo grosso.

Mion racconta di una riunione avvenuta nel 2010, otto anni prima che lo strallo 9 cedesse di schianto trascinando con sè quarantatrè vite. «Emerse - dice - che il ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo mi rispose ce la autocertifichiamo". Non dissi nulla e mi preoccupai. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico. Ero terrorizzato. Temevo di perdere il posto di lavoro».

Mion è di Treviso, è stato per vent'anni un manager di fiducia dei Benetton, messo come consigliere di amministrazione di Aspi, Autostrade per l'Italia comprata nel 1999. Uomini dei Benetton erano anche gli altri che nel racconto sedevano intorno al tavolo: l'amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci, il direttore generale Riccardo Mollo, e anche uno dei quattro fratelli Benetton, Gilberto, morto tre mesi dopo il crollo del ponte. Intorno a loro, tecnici e manager di Spea, la società che doveva occuparsi della sicurezza del ponte: ma che era di proprietà di Aspi, in un meticciato di ruoli tra controllore e controllato che è uno dei gangli di questo processo.

Per la difesa dei principali imputati, e in particolare di quelli di area Benetton, è una dichiarazione pericolosa. Infatti partono col controinterrogatorio, con in testa il legale di Castellucci Guido Alleva. E in serata fonti difensive dicono che «le accuse mosse da Mion in sede di testimonianza vengono ridimensionate», che Mion della riunione «non ricorda la data, i partecipanti e i contenuti», e ricordano intercettazioni in cui traspare un certo malanimo del manager verso la sua vecchia azienda. Ma resta il fatto che ieri Mion oltre ad accusare gli altri accusa anche se stesso. Questo non è facile spiegarlo solo come una ripicca.

Secondo Mion, il problema era che quando Edizione - la holding di famiglia di cui lui stesso era al vertice - acquisì le autostrade dall'Iri «eravamo del tutto impreparati, davamo per scontato che il management esistente della vecchia Autostrade fosse in grado, le cose non andarono così». Autostrade, il carrozzone pubblico che il ponte aveva gestito per anni, e che ora ha anch'essa i suoi uomini sul banco degli imputati. Che già la vecchia gestione statale avesse ricevuto e sottovalutato segnali d'allarme sulla tenuta del grande viadotto è emerso già da diverse perizie, e proprio retrodatare la catena delle responsabilità è uno degli obiettivi della difesa di Castellucci e soci. Già dal 1993, dicono le consulenze, le infiltrazioni dei tiranti, incancreniti dalla salsedine, si erano fatte sentire: anche se riguardavano lo strallo 11, e non lo strallo 9. Nulla accadde, comunque.

E dopo la privatizzazione continua la commistione tra controllore e controllato, tra Spea e Aspi, di cui ieri in aula Roberto Tommasi, nuovo amministratore di Autostrade dopo il ritorno in mano pubblica, dice: «Il livello di degrado della rete era sostanzialmente peggiore di quanto era emerso da ispezioni di Spea».

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