«Non smettiamo di inseguire i sogni», ha detto ieri il premier Matteo Renzi citando, a Bogotà, Gabriel García Márquez. E poi via discorrendo di Italia, Expo e aziende tricolori di successo. Ma nel giorno dell'esordio in Borsa delle Poste, Renzi non ha potuto citare il successo dell'operazione così a lungo voluta perché in quelle stesse ore, in Piazza Affari, il titolo andava sotto il prezzo del collocamento. Le azioni hanno chiuso a 6,70 euro, in calo dello 0,74% rispetto ai 6,75 di partenza. Cancellando così il «sogno» di molti investitori. Degli 8,8 miliardi di capitalizzazione, 650 milioni sono andati subito in fumo. Oggi si vedrà. Ma comunque per quella che doveva essere la madre delle privatizzazioni dell'era Renzi, ieri non è stata un bella giornata. Se si potesse, ci sarebbe da scommettere che, in caso di un esordio tambureggiante, un +5 o 10%, il premier l'avrebbe cavalcato per bene.
L'ad del gruppo, Francesco Caio, non si è detto preoccupato perché «abbiamo il passo del montanaro». Forse avrà ragione. E di certo non sono le Poste, azienda sana e con prospettive specialmente dal lato finanziario, a rappresentare un problema. Ma questa privatizzazione, molto affrettata dal governo per portare a casa 3 miliardi e mezzo, è stata criticata da tanti, a cominciare dal suo risanatore Corrado Passera. E negli ultimi giorni sono state prese diverse decisioni discutibili. A cominciare dal prezzo.
Almeno una parte dei trader ha considerato un po' tirata la scelta di collocare le azioni a 6,75 euro. Un prezzo che ha ridotto la possibilità di crescita delle quotazioni, specialmente alla luce di un esordio avvenuto con l'indice di Borsa vicino ai massimi dell'anno.
Inoltre, non essendo Poste un titolo speculativo, un prezzo troppo elevato rende l'investimento meno appetibile. Se queste considerazioni hanno un senso, si capisce perché molti ieri hanno preferito vendere immediatamente (in apertura il titolo è arrivato fino a 6,95 e poi è crollato su una mole enorme di volumi), tanto che alla fine si è mosso addirittura l'8% del capitale.
Ma ancor più discutibile è stata la scelta dell'azionista Tesoro (i soldi sono andati tutti allo Stato, nemmeno un euro alle Poste) di non accontentare tutti i piccoli risparmiatori, quelli che avevano ordinato anche un solo lotto di 500 azioni, preferendo un sorteggio che ha premiato, tra i fortunati, anche quelli che avevano richiesto migliaia di titoli. Una vendita di Stato di queste dimensioni, di un'azienda tricolore gigantesca, presente in ogni angolo del Paese, doveva essere più popolare, più coinvolgente.
Invece, dei circa 277mila richiedenti (al netto dei 26mila dipendenti), solo 153mila hanno avuto i titoli: poco più della metà. L'occasione di creare i «PostPeople» è stata così perduta. E forse ieri, in Borsa, lo si è un po' visto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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