«Non ci rassegniamo ai maestri senza morale e agli imprenditori della paura», aveva detto dal pulpito pochi mesi fa monsignor Renato Boccardo. «Non si può certo considerare un viaggio di piacere una delle più disperate transumanze umane della storia», aveva aggiunto, annunciando che la Curia di Spoleto avrebbe aperto le sue strutture ai migranti dall'Africa e dalla Siria.
Chissà se il tunisino di ventisei anni detenuto nel carcere di Spoleto aveva letto queste parole del vescovo, se sapeva di avere davanti un uomo che indica nell'accoglienza un dovere morale prima ancora che di fede. Tutto inutile, irrilevante. Monsignor Boccardo doveva morire perché è un infedele, perché porta addosso i simboli della cristianità: così aveva deciso il gruppo di integralisti che nel carcere umbro ha incaricato il tunisino di colpire il vescovo, quando sarebbe entrato a dire messa per i detenuti. E solo l'occhio lungo della polizia penitenziaria ha impedito che l'attentato venisse compiuto.
Tutto accade il 12 gennaio scorso, nella casa di reclusione che da trent'anni ha sostituito il vecchio carcere della Rocca Albornoziana. Quel giorno, monsignor Boccardo è atteso in carcere per incontrare i detenuti e celebrare insieme a loro l'eucaristia, in vista dell'imminente ricorrenza di San Ponziano, patrono della città. È un appuntamento che i 450 detenuti, cattolici e non cattolici, aspettano da tempo.
Ma non tutti aspettano il vescovo per inginocchiarsi davanti a lui. Nell'elenco dei detenuti che hanno chiesto di partecipare all'incontro con Boccardo, il comandante della polizia penitenziaria di Spoleto, il commissario Marco Piersigilli, nota un nome inatteso. È quello del tunisino, un detenuto per reati comuni ormai vicino alla scarcerazione, prevista per luglio. Non è considerato un fanatico islamico, ma è indubbiamente musulmano. Ed è detenuto nello stesso reparto che ospita alcuni maghrebini sospettati di simpatie per l'integralismo.
«Come mai tanto interesse per una celebrazione cattolica?» si chiede il capo degli agenti. Così si decide di intervenire. Mentre si dirige verso la cappella della messa l'uomo viene avvicinato da una pattuglia, e cerca di liberarsi dell'arma che portava con sé. Un'arma rudimentale, il manico di un rasoio su cui viene incastonata una lametta da tre centimetri: uno dei classici attrezzi utilizzati in carcere per i regolamenti di conti tra detenuti, armi semplici ma potenzialmente micidiali.
Nel carcere scatta immediatamente l'allarme, il tunisino viene immobilizzato, la sua cella viene perquisita. Tutto avviene senza clamori, tanto che Boccardo continua a dire messa senza accorgersi di nulla. Ma la segnalazione parte immediatamente per Roma, verso le strutture del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria che monitorano il proselitismo jihadista nelle carceri.
Il tunisino ora è in cella d'isolamento, in attesa di venire spedito in un carcere meno accogliente. Intanto si cerca di capire se si tratti di un «cane sciolto», uno dei tanti islamici che si lanciano in atti solitari di terrorismo sull'onda della propaganda integralista, o se più probabilmente sia stato indottrinato da qualche compagno di cella: in questo caso il tunisino potrebbe essere stato scelto per l'azione proprio perché considerato a «basso rischio» dai vertici dell'istituto.
Cinque detenuti islamici sospettati di essere gli ispiratori del tunisino sono, secondo il sito Umbria24, a rischio trasferimento. Monsignor Boccardo intanto annuncia che tornerà presto in carcere: «Questo episodio - dice ieri - dimostra quanto sia urgente il dialogo».
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