Il premier attacca fronda («no ai diktat»), Ulivo («troppe divisioni») e Cgil. Poi evita la resa dei conti

Il premier attacca fronda («no ai diktat»), Ulivo («troppe divisioni») e Cgil. Poi evita la resa dei conti

RomaSoave nei toni, duro nei contenuti, Matteo Renzi ieri si è presentato all'Assemblea nazionale del suo partito senza cercare l' Ok Corral ventilato per giorni. Anzi, ha anche concesso alla minoranza di non contarsi, rinunciando a far votare un documento su cui avrebbe avuto una maggioranza schiacciante.

Del resto, spiegano i suoi, non ce n'era bisogno: «Sabato notte, nel voto in Commissione sulla riforma del Senato, gli otto deputati della minoranza sono riusciti a dividersi in tre diverse posizioni. E la riforma è stata approvata», constata David Ermini. Inutile dunque infierire: del resto gran parte dei renziani aveva consigliato nei giorni scorsi al segretario di non regalare alla sinistra del Pd l'alibi per «fare le vittime» e rompere alla vigilia della partita vera, quella del Quirinale, su cui gli uomini del premier (Delrio, Guerini, Lotti e Serracchiani) stanno iniziando a istruire il dossier, e da domani apriranno il «sondaggio» tra i parlamentari Pd. Renzi assicura alla minoranza la propria disponibilità a dialogare e anche a «cambiare le mie posizioni», ma «è fondamentale che dopo aver discusso si decida», e chi pensa di usare il dissenso solo per «bloccare tutto» ha capito male: «Non mi faccio trascinare nella palude dai diktat di una minoranza». Il premier spiega di non chiedere «obbedienza» ma «lealtà»: «Le questioni di “coscienza“ non si organizzano per coscienza, e non si può utilizzarle per mandare sotto il governo», avverte. E prende di petto anche quella versione mitologica dell'Ulivo prodiano di cui si fa scudo la fronda: «Noto un certo richiamo all'Ulivo molto suggestivo e nostalgico - dice Renzi - ma io ricordo cosa diceva l'Ulivo sulle riforme, ad esempio contro il bicameralismo e per una legge elettorale maggioritaria. Ciò che non sento spiegare è come si siano potuti perdere vent'anni di tempo senza realizzare le promesse fatte in quelle campagne elettorali. Le stesse che ora noi stiamo realizzando». E soprattutto, affonda, eviti di agitare il «santino» dell'Ulivo chi operò per «mandarlo a casa, in quell'autunno del '98», quello in cui D'Alema archiviò il Prodi 1. L'Ulivo di governo di quegli anni, sottolinea, è «sempre stato l'epicentro di ogni divisione, e se quel progetto è fallito, è stato solo per gli errori del centrosinistra». A chi, da Cuperlo a Gad Lerner (spuntato nell'inedita veste di delegato all'Assemblea) lo accusa di aver spezzato il legame con la Cgil e la sua piazza, replica a muso duro: massimo rispetto per chi sciopera, ma «noi rappresentiamo il Pd, non la Cgil». Che peraltro, sottolinea, si scordò guarda caso di scioperare contro Monti e la Fornero. Irride al «compagno Barbagallo» che evoca la Resistenza e alla Camusso manda un messaggio chiaro: «È finito il tempo in cui il sindacato esercitava con la piazza il suo potere di veto. Non sono loro a guidare il Paese». Tornino a occuparsi utilmente di trattative aziendali: «Il Pd non è la cinghia di trasmissione di nessuno». Sullo «schifo» del caso Roma usa toni duri, ma non fa sconti ai magistrati: «Meno interviste e più sentenze».

D'Alema diserta l'assemblea: «Non accetto minacce o sanzioni», fa sapere. Bersani è assente causa colpo della strega, spiegano i suoi. La Bindi passa, ma evita di parlare dal palco e si difende dagli schermi di Sky: «Noi abbiamo provato a fare le riforme con l'Ulivo, ma c'era Berlusconi», lamenta.

Anche Pippo Civati diserta il podio e gira per i corridoi in cerca di telecamere cui affidare i propri penultimatum. L'unico a prendersi la scena, con legittima soddisfazione, è Stefano Fassina che lancia il grido di dolore della sinistra dura e pura: «Il Pd sta cambiando identità».

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