La strategia è quella del «pacchetto di mischia». E ha l'obiettivo, a questo punto dichiarato, di aumentare il potere negoziale di Palazzo Chigi nelle tante interlocuzioni in corso da mesi con Bruxelles su una serie di dossier che il governo considera decisivi. Un «metodo» della cui bontà Giorgia Meloni si è andata convincendo nelle ultime settimane, durante le quali la Commissione europea ha continuato a congelare la terza rata da 19 miliardi del Pnrr. Una scelta che da molti giorni nel governo considerano «strumentale», visto che «il desk Italia che a Bruxelles si occupa del nostro Piano ha ricevuto da tempo tutta la documentazione che aveva chiesto, tanto che da settimane non è più in corso alcun carteggio». Riflessione, questa, che il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, consegna in privato ai suoi interlocutori ormai dai primi giorni di giugno. E che ieri, nelle sue comunicazioni in Parlamento in vista del Consiglio Ue di oggi e domani, Meloni ha fatto in buona parte sue. La premier, infatti, ci ha tenuto a dire che il governo ha «prodotto molte e copiose carte» nelle interlocuzioni con Bruxelles, nonostante le «contestazioni» della Commissione «non siano riferibili a noi» perché il Pnrr è stato scritto da chi c'era prima. E, continua Meloni, «mi fa specie» che oggi Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, «chiami in causa questo governo dicendo che bisogna correre e fare di più» perché «immagino che lui quel Piano lo avesse letto prima».
A Palazzo Chigi, insomma, l'impressione è che il temporeggiare sul via libera alla terza rata non abbia più alcun appiglio tecnico e sia solo funzionale a tenere l'Italia sotto botta su tutti gli altri dossier che sono oggetto di confronto con Bruxelles. Dalla riforma del Patto di stabilità all'azione della Bce sui tassi d'interesse (l'ennesimo rialzo per la nostra economia non è una buona notizia), fino al capitolo immigrazione. Su cui Meloni chiede con insistenza un cambio di paradigma nell'affrontare la questione dei movimenti primari e secondari, oltre a insistere per trovare un'intesa con la Tunisia (più del 50% degli arrivi in Italia partono da quelle coste) che porti a nuovi finanziamenti comunitari verso Tunisi e sblocchi il prestito di due miliardi di dollari del Fmi (che potrebbe salvare il Paese da una bancarotta destinata a portarsi dietro un boom dei flussi migratori).
Così, nelle ultime settimane la premier è andata maturando la convinzione di tenere ancora in sospeso il Mes, nonostante dei venti Paesi dell'eurozona manchi solo il «sì» italiano (che blocca tutti gli altri perché serve l'unanimità) e il nostro via libera sia di fatto ineluttabile (è solo una questione di tempo). Ieri, però, c'è stato il cambio di passo. E quel che sottotraccia era chiaro da settimane Meloni lo ha messo nero su bianco alle Camere. Perché, ci ha tenuto a dire, «io sono una abituata a parlare chiaro». Quindi, «discutere ora del Mes non è nell'interesse nazionale» perché «le cose vanno valutate nella loro interezza». Un passaggio in cui la premier lega esplicitamente il confronto in Europa sulle nuove regole del Patto di stabilità e sul completamento dell'Unione bancaria, temi strettamente connessi alla riforma del Fondo salva-Stati. Ma che politicamente intende allargare a tutti i tavoli negoziali aperti. Non solo il dossier migranti o il decisivo capitolo Pnrr e Repower Eu, ma anche la nomina del successore dell'uscente Fabio Panetta (da novembre governatore di Bankitalia) al board della Bce. Con tanto di affondo alla presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, che è più nociva dell'inflazione perché - attacca Meloni - «mette in atto una cura più dannosa della malattia».
Un approccio che si è portato dietro le fibrillazioni della Lega, che da settimane - la corsa alle Europee 2024 è ormai iniziata - non esita a prendere le distanze dalla premier. Non a caso, proprio ieri mattina e mentre Meloni era già alla Camera, il vicesegretario del Carroccio Andrea Crippa l'ha buttata lì: «Dovessero emergere responsabilità, è giusto che la ministra del Turismo Daniela Santanché si dimetta».
Poi il gelo sul Mes, con il Carroccio che in Aula non ha applaudito il passaggio della premier sul Fondo salva Stati. E con il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, seduto non nei banchi del governo ma in quelli del gruppo della Lega.
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