«Senza rete»: è la formula più ripetuta, nei corridoi del Palazzo, per descrivere la partita decisiva che si sta aprendo ormai ufficialmente.
I tempi sono chiari: a fine dicembre Giorgio Napolitano ufficializzerà il suo addio al Colle, e intorno alla metà di gennaio alle Camere inizieranno i giochi per la successione. Senza rete, appunto, perché al momento nessuno ha in mente un candidato capace di sbaragliare i mille giochi interni e di vincere i veti incrociati della agguerrite bande di franchi tiratori che si apposteranno nelle urne. E perché Matteo Renzi sa che con ogni probabilità arriverà allo show down senza l'arma decisiva della legge elettorale: sì, l'Italicum è incardinato al Senato (dove peraltro la maggioranza in commissione traballa, dopo il passaggio all'opposizione dei senatori centristi di Mario Mauro) e il premier è convinto di riuscire a portarlo a casa entro fine anno, ma una volta approdato a Montecitorio per la lettura definitiva la corsa si fermerà. Non solo per la guerriglia della minoranza Pd, che ora chiede di sottoporre la legge al giudizio preventivo della Consulta, nella speranza di affossarla. Ma anche perché dalle stesse file renziane emergono diverse perplessità sul suo impianto: le elezioni in Emilia Romagna hanno dimostrato una cosa allarmante, ossia che nei territori serbatoio di voti Pd, con le preferenze, passano più facilmente i candidati della vecchia guardia, quelli legati alla Ditta e alla Cgil. Con il rischio che il premier si ritrovi nuovamente ostaggio di gruppi parlamentari ostili.
Napolitano un nome nel cuore ce l'ha, quello di Giuliano Amato. Un nome che sarebbe perfetto per lo schema caldeggiato dal presidente, ossia quello di un candidato condiviso dai «pattisti» del Nazareno: Silvio Berlusconi voterebbe volentieri Amato (era già nella sua rosa del 2013). Ma Renzi, che pure con l'ex premier socialista ha buoni rapporti, lo ritiene poco spendibile, e certo non in sintonia con la sua linea di rinnovamento. Fosse per lui, il premier punterebbe su un candidato che sparigli, un nome fuori dai giochi della politica, un personaggio di spessore ma non riconducibile a caselle partitiche. Ha un identikit piuttosto preciso in testa, ma si guarda bene dall'evocarlo prima di aver capito se ci siano le condizioni per metterla in pista. Di contro, nell' entourage di Palazzo Chigi si percepisce un forte timore: che la partita per il Quirinale si avveleni e si incagli al punto tale, tra veti incrociati e guerre per bande, da creare quella situazione di «emergenza democratica», con relativi contraccolpi sui mercati, che renderebbe quasi inevitabile la scesa in campo di un «salvatore della Patria». Chi? C'è Romano Prodi, invocato dalla Bindi a nome di una parte della minoranza Pd, quella che pensa di poter coinvolgere anche i grillini sul nome del Professore. Ma, nonostante i tentativi di captatio benevolentiae che dagli ambienti prodiani partono verso Berlusconi («La pacificazione in Italia possono sancirla solo i condottieri dei due eserciti che si sono combattuti», va dicendo in giro Massimo Mucchetti, senatore Pd in quota BancaIntesa-Bazoli-Prodi), è arduo che il Cavaliere si faccia tentare. E gli antipatizzanti di Prodi sono tanti e tali, dentro il Pd, che un replay dei 101 è assai facile da prevedere. Ma c'è soprattutto Mario Draghi: certo, è impegnato in un ruolo internazionale di primo piano e il suo mandato dura fino al 2019.
Ma, secondo i ben informati, il presidente della Bce, se chiamato a salvare la patria in condizioni di emergenza, non si sottrarrebbe. Ormai è diventato chiaro a tutti che dal Quirinale, in un sistema istituzionalmente bloccato come quello italiano, si comanda molto più che da Palazzo Chigi. E sette anni sul Colle sono lunghi, e molto allettanti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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