Aveva promesso di saldare il conto entro il primo luglio dell'anno scorso, poi aveva spostato un po' il termine, al 21 settembre, giorno di San Matteo. Infine, non raggiunto l'obiettivo, aveva procrastinato la scadenza al 31 dicembre 2014. Pensate che i debiti della pubblica amministrazione in questi sei mesi e 19 giorni siano stati pagati ai creditori nonostante il rinvio di oltre un anno? Macché. Delle decine di miliardi dovuti dallo Stato e dagli enti locali alle imprese non si ha più nessuna notizia: anche il ministero dell'Economia ha smesso di aggiornare la propria pagina web da fine gennaio.
Anche Renzi ha dimostrato di essere «italianissimo» nel rispetto degli impegni. E ieri nella sua rubrica delle lettere sull' Unità si è anche concesso il lusso di scherzare sul dramma di molte aziende. «Sul pagamento dei debiti alle imprese abbiamo messo i soldi ma la procedura per riscuoterli è stata troppo complicata», ha scritto aggiungendo, incredibilmente, che «alla fine il colmo è che sono avanzati i soldi ma non tutti sono ancora stati pagati». Effettivamente, se ci si fermasse ai dati del Tesoro al 30 gennaio 2015, su 56 miliardi stanziati per il pregresso accumulato fino a fine 2013 ne erano stati pagati 36,5 miliardi circa, il 65%. Insomma, erano avanzati 14 miliardi considerato che le erogazioni agli enti debitori erano pari a 42 miliardi.
La «procedura complicata», che il Giornale ha denunciato fin dall'anno scorso, è la certificazione dei crediti. Le fatture emesse devono, infatti, essere postate su un'apposita piattaforma Internet ed essere vagliate dal debitore che rilascia una certificazione che le rende immediatamente esigibili oppure scontabili presso una banca. Ovviamente, lo Stato non ha mai rispettato i tempi previsti per il rilascio dei benestare, trasformando anche questo processo in una via Crucis .
Eppure, almeno in teoria, il pagamento non avrebbe dovuto comportare tutte queste difficoltà. In primo luogo, l'ex commissario e attuale vicepresidente del Parlamento Ue, Antonio Tajani, si era impegnato personalmente affinché le risorse destinate dai governi Monti, Letta e Renzi al pagamento non incidessero nel calcolo del deficit. È lecito pensare, quindi, che parte di quel denaro sia stato impiegato per finanziare spesa corrente. A nulla è valsa la procedura di infrazione avviata l'anno scorso, a nulla è valsa la richiesta di impegni formali contenuta nella lettera inviata dalla Commissione al governo italiano poco più di un mese fa. È rimasto tutto lettera morta.
A pensarci bene, però, la vera beffa per il sistema imprenditoriale non è tanto nell'inutile sarcasmo del premier quanto dalle rilevazioni della Banca d'Italia. Lo stock del debito delle pubbliche amministrazioni, si legge nell'ultima Relazione annuale, è rimasto fermo a fine 2014 a quota 70 miliardi di euro. Le amministrazioni pubbliche hanno continuato a spendere e spandere, vanificando quei pochi sforzi che pure erano stati compiuti. Mentre le imprese sono state costrette a spendere oltre 5 miliardi di euro di interessi sulle anticipazioni di cassa bancarie, mentre i soldi destinati ai pagamenti «sono avanzati».
Ecco perché è opportuno dubitare della promessa del premier di ridurre la pressione a cominciare dalle imposte sulla prima casa. Se si seguirà lo stesso copione adottato con i debiti della Pa, ci sarà da preoccuparsi. Così come non meno preoccupante è un'altra promessa di Renzi consegnata al proprio house organ . «Spero che questa legislatura sia quella buona anche per una legge sulla rappresentanza. Modello tedesco? Magari!».
Anche questo è un progetto che il premier ha lanciato sei mesi fa: si tratta di estendere il modello Fiat a tutto il mondo del lavoro facendo sì che i contratti valgano per tutti i dipendenti di un comparto o di un'azienda purché li firma la maggioranza dei rappresentanti dei lavoratori. Al segretario della Fiom Landini e alla galassia a sinistra del Pd sarà venuta già l'orticaria.
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