Il referendum sulle trivelle, il flop alle comunali e, all'orizzonte, il referendum costituzionale su cui Matteo Renzi ha scommesso il proprio futuro politico. Per il premier non è un momento facile, e anche la strategia scelta per trovare una via d'uscita alle difficoltà del governo e del Pd lo dimostra. Dopo aver voluto e poi difeso il patto parlamentare con Denis Verdini, Renzi si è accorto che il «partito della nazione» sembra indigesto al suo elettorato almeno quanto lo è sempre stato alla minoranza dem. Così, come prima mossa, il premier ha disconosciuto l'alleanza, derubricandola a «partito d'aula». E scaricando la paternità di quell'operazione spregiudicata su Luca Lotti, che è stato sì il tessitore della complessa trattativa con l'ex coordinatore del Pdl, ma piazzato in quel ruolo proprio da Renzi, per l'urgenza di stabilizzare una maggioranza non solidissima in particolare al Senato.
La parola d'ordine, insomma, sembra essere il riavvicinamento a sinistra, e qualche prudente plauso da parte di esponenti della minoranza dem sul nuovo approccio del premier sembrerebbe promettente in vista di una tregua sul fronte interno. Ossia quello, anche in vista del referendum costituzionale, che preoccupa di più Renzi. Ospite di Otto e Mezzo, ieri, il premier ha infatti sciorinato il suo nuovo corso, spiegando che «non c'è un'alleanza tra il Pd e Verdini a livello nazionale», è solo «un tema che non è mai esistito, ma che riempie i talk show». Dalla Gruber, però, Renzi ha anche ribadito che, comunque andranno i ballottaggi, lui non si sente in discussione. «Se mi dimetto nel caso il Pd perda a Roma e Milano? Assolutamente no», ha tagliato corto. «L'esito della permanenza al governo - ha proseguito il premier - è legato al referendum, non alle amministrative». Su Roma, dove Virginia Raggi arriva al ballottaggio in deciso vantaggio sul candidato dem Roberto Giachetti, il presidente del Consiglio insomma non salta, ma ha «l'impressione che se il Pd perde saltino le Olimpiadi del 2024». Idem a Milano, dove Renzi è lapalissiano nel descrivere (e circoscrivere) le conseguenze di un'eventuale sconfitta dem: «Se il Pd perde a Milano, e non credo che succederà, il sindaco sarà Parisi». Scaricato Verdini, Renzi però se la prende anche con la fronda dem. Quanto al fronte interno. «Mi colpisce - attacca - che ci sia questa continua guerriglia interna invece di parlare dei problemi veri». Nessuna apertura anche sull'ipotesi di un vice a cui lasciare le redini del partito. «Non faremo un unico vicesegretario, non è così che si risolvono i problemi». Quelli dentro al Pd, Renzi intende affrontarli subito dopo i ballottaggi, non con le espulsioni («quelle le fanno altri», sibila), ma «col lanciafiamme» sì, rimettendo «al centro chi lavora, e non chi sta a pensare solo alla propria carriera». Anche perché, prosegue il premier, le correnti «fanno arrabbiare i nostri», e dunque «su questo dobbiamo cambiare». Non mancano frecciate a Fassina («La sinistra radicale non è pervenuta in queste elezioni») e a Bersani, come pure la difesa d'ufficio delle riforme («Una parte del Pd non apprezza lo sforzo, ma credo che i cittadini apprezzeranno») e del partito, che «ha problemi» ma è vincente, più della nazionale.
E più di Grillo e dei suoi: «Con i dati di oggi al ballottaggio nazionale andrebbero Pd e Forza Italia, è sconvolgente», rimarca Renzi, riservando una carezza al Cavaliere: «Non Grillo, pompato in questi mesi, ma Berlusconi o più probabilmente il candidato di Berlusconi».Avanti a tutta dritta verso il referendum, insomma. Ma occhio a Verdini, che per ora ha scelto un basso profilo, ricordando però al premier che ora lo ripudia come l'appoggio di Ala sia essenziale per il governo.
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