
Forse, dico forse, dopo il nulla di fatto di Istanbul Donald Trump si convincerà che con Vladimir Putin non bastano le parole, i sorrisi, i complimenti e le promesse. E neppure le minacce velate. Per convincere lo Zar a imboccare seriamente la via della pace bisogna aumentare la pressione su di lui, convincerlo che anche lui ha qualcosa da perdere aumentando le sanzioni a Mosca e il sostegno militare a Kiev. Chi pesa gli avversari solo sul piano della forza, comprende solo il linguaggio della forza.
È un concetto che il presidente americano dovrebbe aver presente visto che è il suo stesso criterio quando utilizza i dazi come bombe sull'economia cinese, canadese o europea.
Con Putin questa tattica, che appartiene al profilo biografico dell'inquilino della Casa Bianca, The Donald almeno per ora l'ha messa da parte: ha preferito maltrattare Zelensky in mondovisione, mentre con lo Zar che lo sta prendendo in giro, che sta usando platealmente ogni ipotesi di negoziato per fare melina e guadagnare tempo per sviluppare l'opzione militare, si è limitato a qualche battuta senza nessun seguito. Un atteggiamento che prima era motivato dall'obiettivo di staccare la Russia dalla Cina, ma le immagini di Putin a braccetto con Xi sulla piazza Rossa hanno messo in chiaro che questa strategia non ha speranze. Ragion per cui Trump farebbe bene a dare l'idea di un Occidente unito e concordare con l'Europa, che lo sta facendo di suo, un aumento della pressione nei confronti del Cremlino. Con i fatti non con le parole.
Anche perché al di là dell'incontro tra le delegazioni ucraina e russa, che di per sé è un fatto positivo, dello scambio di mille prigionieri, dell'ipotesi di preparare un possibile incontro tra Putin e Zelensky, l'atteggiamento degli inviati dello Zar ha dimostrato che l'ipotesi di un cessate il fuoco è remota e soprattutto che la Russia parte da una posizione lontana anni luce da un possibile accordo. Gli ucraini dicono che rispetto ai contatti avuti in passato le loro proposte sono ancora più irricevibili.
Ora se si vanno a vedere le bozze di quegli incontri del 2022 proprio a Istanbul che per i pacifisti nostrani senza cervello erano la base di una pace andata «sprecata» - a cui lo stesso capo della delegazione russa di ieri e di oggi, il ministro della Cultura Medinsky, ha fatto riferimento come ipotesi di partenza - ti accorgi che Kiev aveva tutto da perdere. E la questione principale, al solito, non sono i territori che Putin si vuole annettere su cui si può ragionare, ma le garanzie di sicurezza per l'Ucraina di domani. Ad esempio, in quei negoziati si immaginava che un gruppo di Stati garanti sarebbe intervenuto qualora si fosse ripetuta una nuova aggressione nei confronti di Kiev. Nel gruppo c'erano i membri permanenti nel consiglio di sicurezza Onu, quindi anche la Russia, più Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia. Ma a parte la composizione, nella bozza d'accordo ucraina si prevedeva che gli Stati garanti potevano agire autonomamente per soccorrere Kiev in caso di attacco; in quella russa, invece, la decisione doveva essere concordata da tutto il gruppo per cui Mosca si arrogava surrettiziamente un diritto di veto su un ipotetico intervento degli Stati garanti in favore dell'Ucraina. In sintesi: i russi potevano ripetere l'aggressione e nel contempo avevano il potere di bloccare ogni soccorso internazionale verso Kiev. Roba da non credere. Eppure ieri la delegazione ucraina ha giudicato ancor più irricevibili le proposte russe di oggi rispetto a quelle di allora. Accompagnate - a sentire gli uomini di Zelensky - dalla minaccia di «una guerra eterna».
Quindi, Putin va convinto con una certa decisione: purtroppo ogni ipotesi di accordo, ogni possibilità di cessate il fuoco, passa per un
aumento della pressione nei confronti di Mosca. Gli europei ne sono convinti. La speranza è che Trump - piccato dall'atteggiamento di Putin che ormai da mesi si prende gioco di lui - li assecondi sia pure senza entusiasmo.
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