La parola d'ordine è «tregua immediata». I protagonisti del vertice di Minsk sul confitto ucraino ne erano consapevoli e negoziare una soluzione diplomatica quando nelle regioni orientali dell'Ucraina si continuava a sparare e a morire non è stata una premessa incoraggiante. Ma al tavolo tutti si sono seduti convinti della necessità di trovare una via d'uscita prima che l'escalation degli scontri possa portare a un allargamento del conflitto. Così il presidente russo Vladimir Putin, quello ucraino Petro Poroshenko e i leader di Germania e Francia, Angela Merkel e François Hollande, hanno affrontato la questione ben sapendo che da Minsk doveva uscire un segnale distensivo.
Il piano di pace è già stato abbozzato dal gruppo di contatto (Mosca, Kiev, Osce e separatisti filorussi) ed è riassunto in otto punti, per alcuni dei quali è stata raggiunta un'intesa di massima, come cessate il fuoco e il ritiro delle armi pesanti. Ma quello che è apparso subito incoraggiante e inaspettato è stata la presenza dei leader delle repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk, Alexander Zakharchenko e Igor Plotnitsky, a Minsk proprio per poter firmare l'accordo finale dopo il summit. Il presidente ucraino Poroshenko, prima di sedersi al tavolo, ha lanciato segnali di ottimismo: «Troveremo un compromesso all'interno del Paese, dobbiamo difendere la pace, dobbiamo difendere l'Ucraina. Proprio per questo vado a Minsk, per fermare le ostilità immediatamente e senza condizioni e avviare il dialogo politico, senza interferenze esterne».
Se la fragile intesa non reggerà, scatteranno le nuove sanzioni che l'Unione Europea ha già messo in cantiere contro la Russia. Le misure restrittive dovrebbero partire il 16 febbraio, ma anche in Europa ci sono i primo distinguo. La Grecia, per esempio, ha già fatto sapere di essere contraria a esercitare pressioni su Putin inasprendo l'embargo. Ma la Merkel, oltre alle sanzioni, non aveva molte altre frecce nella sua faretra ed essere riuscita a raffreddare la smania della Casa Bianca di armare l'Ucraina contro Mosca è già stata un'impresa. Certo, non è tutto merito della cancelliera tedesca. Il presidente Barack Obama è ben consapevole che nel disegnare uno scenario di guerra avrebbe rotto quel filo che tiene ancora vicino Stati Uniti ed Europa nel confronto con Mosca. Non a caso, ieri l'ambasciatore americano presso la Nato, Douglas Lute, ha affermato che è un bene «preservare il valore della solidarietà atlantica» anche nella difficile gestione della crisi ucraina. La prospettiva di armare Kiev fa temere, infatti, profonde spaccature anche in seno alla Nato, con la Germania e l'Italia in netta opposizione a una simile strategia. «La cosa più importante è la solidarietà tra i 28 membri» dell'Alleanza, ha spiegato Lute. «Ogni misura che verrà presa in futuro dovrebbe essere valutata in rapporto alla coesione transatlantica», ha aggiunto, sottolineando che all'interno della Nato «la prima cosa da preservare è la solidarietà transatlantica» e le decisioni vanno valutate in base al loro «impatto» sulla solidarietà.
Ma c'è anche chi dà un'ulteriore lettura negativa al piano di Obama, come Ben Barry, esperto dell'Istituto di Studi strategici di Londra, il quale afferma che se
gli Stati Uniti decidessero di armare l'Ucraina, la Russia sarebbe molto più veloce nel rifornire i separatisti. Se ci fosse un'escalation, spiega Barry, le armi americane sarebbero surclassate in numero da quelle russe.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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