Si cela sempre l'eco di un paradosso, di un'iperbole, dello «spostamento in avanti» della comunicazione, nelle parole del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. La ricerca di un «(dis)equilibrio più avanzato», si potrebbe dire; che poi significa anche far avanzare poco a poco il confine della percezione collettiva, del comune sentire. Era il meccanismo del primissimo Umberto Bossi, quello dei trecentomila bergamaschi con le pallottole in canna. Eppure il problema che si avverte negli ultimi giorni, soprattutto nei cinquanta metri che separano Montecitorio da Palazzo Chigi, è come questo meccanismo possa reggere a lungo senza terremotare il governo, visto che chi parla (talora a vanvera) è pur sempre il titolare numero uno della Sicurezza nazionale, colui che dovrebbe farci dormire sonni quieti e invece viene ormai definito dagli oppositori «ministro della Paura» (per fortuna non del Terrore).
Il nervosismo sfociato nella bagarre in Aula ieri, nonché la vicenda della nave Diciotti - tra i contrasti con i colleghi Toninelli e Trenta, le fibrillazioni del Quirinale (a tarda sera Mattarella è intervenuto per chiedere lumi a Conte, sul perché la vicenda non si sbloccasse, facendo arrabbiare il leghista) - sono esempi lampanti di un meccanismo entrato in corto circuito. Ieri il ministro non ha autorizzato lo sbarco delle persone a bordo, chiedendo alla Procura di fare chiarezza sui fatti avvenuti sulla Vos Thalassa, la nave italiana che per prima ha soccorso i migranti, protagonisti poi di una specie di rivolta. Salvini, anche qui camminando sul filo della propaganda e di un diritto che non glielo consentirebbe, dichiarava la sua pazza voglia di veder «scendere in manette» i violenti. «Io non voglio farmi prendere in giro. Finché non c'è chiarezza su quanto accaduto io non autorizzo nessuno a scendere: se qualcuno lo fa al mio posto se ne assume la responsabilità... In Procura c'è dibattito, io non ho nessuna fretta di farli sbarcare, servirà tutto il tempo necessario». E, lesto di lingua come di cervello, preveniva le critiche: «Non faccio il giudice o il poliziotto, non ho interrogato nessuno, faccio il ministro e cerco di far rispettare l'ordine pubblico. Se ci sono violenti vanno in galera e non in albergo; se non ci sono, qualcuno ha mentito e pagherà le conseguenze». Linguaggio brusco, al limite del violento, e dunque inaudito rispetto ai suoi predecessori. Ma anche assai ruvido per le orecchie grilline, come le preoccupazioni della ministro della Difesa dimostrano. Lo stesso si può dire del presidente della Camera, Roberto Fico, che cerca di riequilibrare la barca per quel che può, e conta, in virtù di un rinnovato rapporto con un Beppe Grillo sempre più agnostico sul futuro del governo. Ma il superlavoro di mediazione che il premier-avvocato Conte ha dovuto svolgere tra gli «alleati» fa ben capire come la crisi di governo serpeggi ancora sottotraccia solo per la convergenza d'interessi che c'è tra lo stesso Salvini e Di Maio, impegnato a fare da pompiere verso le ali più indignate del Movimento. L'asse regge, a giudicare dal visibile contraccambio leghista sul dl Dignità e i vitalizi. «Abbiamo toni diversi, quel che interessa sono i risultati», è la parola d'ordine grillina. Così che Salvini possa trastullarsi come gli pare sui suoi rapporti con la truppa grillina. «Andiamo d'amore e d'accordo, non ho alcun problema con M5S...
Con Toninelli siamo in continuo contatto, ci scambiamo messaggi, non vi dico quali: cose carine e riservate». Quadro talmente idilliaco da far venire in mente l'antico adagio parafrasato: amore batte dove il dente duole.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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