Processi su tutto e tribunali in tilt

Processi su tutto e tribunali in tilt

Per quale ragione le nostre aule di giustizia sono così intasate da consegnarci il triste primato europeo dell'inflazione giudiziaria? Perché un processo civile dura così a lungo da dare voce al motto illuminista secondo cui «justice delayed is justice denied?». Qual è la radice di una «giuridificazione» dei rapporti umani così spinta e pervasiva da portare sociologi, giuristi ed economisti a parlare di juristocracy, se non di totalitarismo giudiziario? La colpa è delle troppe leggi confuse e instabili che impediscono di capire con chiarezza dov'è il torto e dove la ragione? Certo: i giuristi americani insegnano che la «calculability» di una decisione, dipendente dalla certezza del diritto, scoraggia ricorsi pretestuosi e velocizza i giudizi. La foresta dei processi infiniti dipende anche da regole procedurali troppo bizantine, che prevedono tre gradi di giudizio non solo per gli omicidi ma anche per le beghe condominiali e le questioni stradali? Non c'è dubbio: la complessità del processo alimenta condotte opportunistiche e rende difficile la definizione stragiudiziale. Conta il fattore umano? Ovvio: i giudici, supportati da risorse e personale adeguati, possono migliorare in termini di efficienza, produttività e organizzazione. Gli avvocati, dal canto loro, devono scoraggiare con più forza contenziosi ingiustificati. Tuttavia, gli otto milioni di processi che affollano ogni giorno le aule di ogni angolo d'Italia, non si spiegano solo con la crisi della legge, la complessità delle procedure e il bisogno di maggiore efficienza. La principale ragione è culturale, è dentro di noi, siamo noi: è la nostra storia, il nostro mondo, la nostra diffidenza verso gli altri, la nostra sfiducia per le istituzioni. Ne è dimostrazione la vicenda dei genitori che, inascoltati, hanno chiesto qualche settimana fa al Tar Marche di bocciare il figlio che non aveva conseguito gli obiettivi didattici, per consentirgli di ripetere la prima elementare. Non è la prima volta che le storie scolastiche finiscono in tribunale, sfatando il mito della sacralità di pagelle, voti, esami e docenti. Nelle nostre aule di giustizia si è parlato in questi anni non solo di bocciature illegittime e voti inadeguati, ma anche di merendine vietate, benedizioni pasquali contestate, crocifissi discriminatori, settimana lunga, mense costose, professori troppo rudi, abbigliamenti inadeguati, divise ufficiali e telefonini inibiti. Insomma, le dinamiche scolastiche, un tempo scandite dalle decisioni inviolabili di presidi e professori, sono «giuridificate» al pari di ogni vicenda umana, «dal primo vagito di un uomo all'ultimo rantolo di un moribondo», per dirla con Francesco Carnelutti. È la dimostrazione della nostra incapacità di percorrere la via della prevenzione e della soluzione pacifica. Incapacità che è frutto delle tre «malattie italiane» celebrate da Flaiano: l'individualismo, l'indifferenza alle regole e l'insensibilità all'etica pubblica e al bene comune. È da qui che bisogna partire: dalle famiglie, dalle scuole, dalla cultura.

L'appello alla giustizia non può servire a risolvere quotidiani conflitti umani, sociali e familiari che devono essere affrontati con il dialogo, il confronto e il rispetto. In una società che devolve al giudice le conseguenze dai propri balbettii e delle proprie debolezze, la giustizia non può dare risposte ai problemi ma rischia di diventare il problema.

*consigliere di Stato

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