Scripta manent. Mentre il gip di Roma al quale la pm della Dda capitolina Barbara Sargenti ha presentato la richiesta di rinvio a giudizio per Gianfranco Fini (insieme ai Tullianos: Elisabetta, Giancarlo e Sergio) dovrà fissare la data dell'udienza preliminare, la triste sceneggiata dell'affaire immobiliare monegasco si prepara a chiudere il sipario dopo l'ultima replica, probabilmente quella decisiva. Comunque finirà, agli atti restano le imbarazzanti recensioni della prima ora, in particolare le accorate difese degli uomini che facevano parte dell'inner circle finiano. Roba dettata alle agenzie con toni e modi che ora suonano grotteschi, si spera in buona fede, o forse nella convinzione di una impunità che, evidentemente, era mal riposta. Ci sono voluti anni perché, a margine dell'inchiesta sul presunto riciclaggio di somme da capogiro che il re delle slot Francesco Corallo avrebbe sottratto al fisco non pagando imposte sul gioco on line e sulle videolottery, facesse emergere con nettezza anche i confini di quella storia. Inquadrandola, appunto, in quello che per la procura di Roma era un tentativo di ingraziarsi il presidente della Camera da parte dell'imprenditore del gioco. Corallo aveva messo a disposizione i suoi architetti delle scatole offshore per aiutare Tulliani a celarsi al momento dell'acquisto della casa «svenduta» da An. Corallo aveva pagato l'acquisto e il riaquisto di quella casa al partito da parte di Timara e Printemps. Corallo aveva coperto i costi per la ristrutturazione. Corallo aveva erogato altri bonifici alla nuova famiglia dell'ex presidente della Camera, che tra casa e movimenti vari di denaro è accusata di aver percepito oltre 7 milioni di euro dal re delle slot. Secondo la procura, interessato unicamente ad assicurarsi i buoni uffici di Gianfry, che dal canto suo per gli inquirenti ha avuto una «centralità progettuale e decisionale» nell'intera vicenda della casa, e ne era «pienamente consapevole». Lui, che ora si fa paparazzare da Rino Barillari in centro a Roma, sorridente, spiegando di essere «libero e felice», ha sempre negato. Ammettendo solo di aver corretto versione di volta in volta, eliminando a ogni passaggio omissioni o balle tese, giurava, a difendere ora la poltrona a Montecitorio, ora la famiglia, ora le figlie. Ma rischia il processo. E una condanna che, per il riciclaggio, può arrivare a 12 anni. Restano sullo sfondo i graffiti di quelle accorate difese del nulla, ancora appese in giro per il web, buone a fare arrossire l'ex presidente della Camera. Come sulla cucina della casa monegasca, comprata da un mobilificio romano, le cui fatture il Giornale ritrovò nell'estate 2010 pubblicandole, con la testimonianza di un dipendente che aveva visto Gianfry ed Elisabetta presentarsi lì a scegliere il mobilio e organizzarne la spedizione a Montecarlo. «Un delirio diffamatorio», sparò a zero l'allora portavoce di Fini, Fabrizio Alfano, accusando l'ex direttore Vittorio Feltri di avere addirittura «abdicato ai doveri minimi del giornalista». Parlando di «ricostruzioni fantasiose», di «realtà» come «dettaglio trascurabile» e della «calunnia che diventa notizia». E il vicecapogruppo di Fli alla Camera, Benedetto Della Vedova, aggiungeva che quella cucina «non era per la casa di Montecarlo», ma si trovava «a diverse centinaia di chilometri», perché «fisicamente, in quella casa nemmeno ci entrerebbe». Peccato che invece c'era entrata al centrimento, essendo stata progettata ad hoc per il quartierino «scippato» alla buona battaglia alla quale la contessa Colleoni l'aveva donato.
Quanto alla calunnia che diventa notizia,
in un certo senso è andata proprio così. La calunnia, la loro, è rimasta lì nella nuvola web dei cattivi pensieri del passato. E la notizia, la nostra, alla fine è fiorita in tutta la sua incontestabile adesione al reale.
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