Il presidente, Angelino Alfano, sulla difensiva. Il nuovo coordinatore nazionale, Maurizio Lupi, all'attacco. Chi sarà domani il leader? Alla Conferenza programmatica di Alternativa popolare si respira aria di riorganizzazione interna e di riposizionamento politico, dopo la batosta in Sicilia.
«Non accettiamo lezioni da nessuno - si giustifica Alfano - Non abbiamo tradito. È stato Berlusconi a collaborare con il Pd dai tempi del governo Monti e Letta. Grazie a noi il Paese non è andato in mano a Grillo». Lupi punta sull'«orgoglio centrista» e avverte: «È un errore della politica affrontare sfide nuove con strumenti vecchi: chi sa che succederà al Pd, con le fibrillazioni che vediamo, o al centrodestra, e quali saranno le aggregazioni?». L'annuncio comune ha un coraggio parente dell'irresponsabilità: «Siamo pronti ad andare da soli alle elezioni, con il nostro simbolo. La legge elettorale non ci obbliga a una coalizione». Mettono paletti rispetto al «populismo» di M5S e Lega, battono sull'«identità»: europeismo, popolarismo, no ad estremismo e politica urlata, riforme economiche e sostegno alla famiglia.
Alfano e Lupi rinviano la decisione sulle alleanze alla direzione del 24 novembre, assicurano «ci saremo anche nel 2022», ma sanno che la scelta di campo sarà determinante per la sopravvivenza del partito. Che nelle elezioni siciliane il leader ha portato alla sconfitta insieme al Pd, col risultato che nella sua patria e tradizionale serbatoio di voti Ap è arrivata solo al 4,2 per cento, restando fuori dall'Assemblea regionale. E a livello nazionale rischia grosso se non si allea. L'ultimo sondaggio Ipsos registra una flessione dal 3,1 al 2,6. Insomma, sarebbe sotto la soglia del 3%, senza legarsi a Matteo Renzi o tornare con Silvio Berlusconi. Soprattutto ora che il centro è affollato, con nuove forze vicine a Fi come quella liberale di Costa e quella cristiana di Rotondi e Cesa, che si pesa in questi giorni a Saint Vincent.
Mentre Ap rivendica la sua vocazione europea arriva il messaggio del presidente del Ppe Joseph Daul, che raccomanda di «costruire un forte centrodestra unito che faccia da baluardo al M5s». E Roberto Formigoni dà voce a tanti altri: «Si dichiari chiusa l'esperienza di governo con il Pd».
Alfano e Lupi rappresentano le due anime di Ap e il primo è in grande difficoltà. Il titolare degli Esteri siciliano ha voluto l'entrata in maggioranza nel 2013 e lo «strappo» con Fi, anche se ora sottolinea: «Non abbiamo mai aderito al Pd, non siamo diventati di sinistra», «non vogliamo aver nulla a che fare con una certa destra», ma siamo «pronti a un confronto con le altre forze politiche sul programma». L'ex ministro lombardo, invece, è sempre stato dialogante con il centrodestra e ha osteggiato con altri esponenti del Nord la disastrosa scelta in Sicilia. Ribadisce che se non torna il bonus bebè nella manovra, Ap non la voterà, così come l'eventuale fiducia sullo ius soli. Poi ammette l'errore di aver ceduto ai «ricatti della sinistra, dei comunisti (perché stanno facendo il partito comunista) nell'abolizione dei voucher».
Al di là delle dichiarazioni di amicizia (Angelino attacca «il cinismo della stampa italiana, incantata dal renzismo», per difendere Maurizio sulla vicenda che lo costrinse alle dimissioni; l'altro dice che deciderà tutto insieme all'«amico»), i due sono in competizione e il momento è critico. Lo dice anche un cambiamento di programma: Alfano doveva chiudere l'incontro, ma all'ultimo minuto ha deciso di aprirlo, lasciando Lupi a tirare le fila.
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