La giostra della legge elettorale ricomincia a girare. Ma per ora si tratta solo di quella che a Napoli chiamano ammuina.
La linea che Matteo Renzi ha dato all'assemblea di domenica era molto chiara e piuttosto dura: caro Mattarella, non te la prendere con noi se il Parlamento non combina nulla, prenditela con chi ha affossato ogni riforma e detto no ad ogni proposta, e ha la maggioranza in commissione al Senato. Ma per evitare di dar l'impressione di voler infilare le dita negli occhi del capo dello Stato, il leader Pd ha dato mandato ai suoi di farsi vedere pronti al dialogo, anche perché giovedì la commissione Affari costituzionali della Camera dovrebbe iniziare la discussione su un testo base (di cui allo stato, ha confidato il presidente Mazziotti ad alcuni parlamentari, non c'è l'ombra). Così è iniziato uno scambio di moine e segnali di fumo con i Cinque stelle: da una parte il grillino Di Maio che apre al Pd: «Vogliamo scrivere le regole del gioco insieme al partito di maggioranza, il Pd, e lo vogliamo fare per due ragioni - spiega, con le consuete incertezze grammaticali -: c'è stato l'appello di Mattarella che chiede di fare una legge elettorale in modo che ci sia chiarezza sul risultato dopo le prossime elezioni, e poi il paese è in grave crisi e non possiamo permetterci nuove elezioni politiche in cui ancora una volta si partorisce un risultato incerto». Dall'altra il renziano Matteo Richetti che risponde: «Se il vice presidente della Camera e il M5s fanno sul serio e sono pronti ad assumersi fino in fondo la responsabilità di una legge elettorale condivisa, allora è possibile costruire in tempi rapidi un terreno di intesa». Entrambi mettono paletti: il seguace di Grillo dice che il premio di maggioranza deve restare alla lista e non alla coalizione (cosa che a Renzi va benissimo ma fa imbestialire Forza Italia); il Pd col vicesegretario Maurizio Martina spiega di volere «un impianto il più possibile maggioritario per garantire governabilità» e aggiunge che «se son rose fioriranno».
In realtà, però, alla fioritura di rose con Grillo e i suoi, in casa Pd, si crede poco o punto. Intanto perché nessuno si fida dei Cinque stelle, che come è noto cambiano linea ad ogni colpo di tosse della Casaleggio e che sono divisi tra loro (infatti subito Di Battista e Fico si precipitano a dire cose opposte a quelle di Di Maio). E poi per una ragione fondamentale: al Senato, i voti grillini sono poco più di 30. E dunque un accordo tra Pd e Cinque Stelle non garantirebbe alcuna maggioranza sulla legge elettorale a Palazzo Madama: «Arriveremmo al massimo a 135 voti, non ci si fa nulla», spiegano i democrat. Ergo, si torna alla casella di partenza, e cioè alla necessità di un accordo con Forza Italia, se si vuol davvero fare una nuova legge elettorale. Strada preferita da molti, nel Pd, che ritengono Berlusconi un interlocutore più affidabile di Grillo. Il dialogo con Di Maio, insomma, serve anche a smuovere le acque col Cavaliere, che dal canto suo si dice «disponibile al confronto» ma punta sul proporzionale per evitare che «una minoranza possa governare contro la maggioranza degli elettori».
Le posizioni dunque restano lontane e gli accordi pure.
Rafforzando l'ipotesi che alla fine il punto di caduta sia: nessuna nuova legge, e un decretino del governo che si limiti a correggere le distanze tra Italicum della Camera e Consultellum del Senato. Ma di qui a giovedì tutti i partiti diranno la loro, e il capogruppo Rosato assicura che «il Pd si farà carico della mediazione per arrivare ad un testo condiviso». Poi si vedrà.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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