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"Quando Berlusconi diede l'ok a 15 voti per Mattarella al Colle"

Il deputato di Fi ricorda le passate elezioni: «Andreotti era certo del sostegno del Pci»

"Quando Berlusconi diede l'ok a 15 voti per Mattarella al Colle"

Roma La Dc, certo, come no. La Balena Bianca. «Senza di noi non si combinava nulla». Ma il fattore K, vogliamo parlarne? Quando Zio Giulio, ad esempio, era la carta non tanto segreta del Pci. «Achille Occhetto gli aveva assicurato una trentina di voti, forse di più». E quando persino il Cav lavorava per un uomo del Bottegone. «Comunista per comunista, sosteneva Silvio Berlusconi, meglio Massimo D'Alema che Giorgio Napolitano. Poi però sette anni dopo fu il primo a proporre il bis e a chiedergli di rimanere ancora sul Colle». I rossi? In vent' anni di Parlamento Gianfranco Rotondi, vicepresidente dei deputati di Forza Italia, segretario nazionale della Democrazia Cristiana per le Autonomie, ne ha viste di tutti i colori. Ci ha scritto sopra pure un libro, La variante Dc. Rotondi ha partecipato all'elezione degli ultimi quattro capi dello Stato, ma da «ragazzo di bottega» di Piazza del Gesù ha seguito da vicino anche la nomina di Cossiga e Scalfaro. E Sandro Pertini? «Quello no. Però Berlusconi presidente della Repubblica sarebbe il nuovo Pertini».

Per Francesco Cossiga andò tutto liscio. Perla tornata successiva invece non bastarono quindici scrutini.

«Quella volta, era il 1992, toccava all'Arnaldo. Era il segretario della Dc, aveva l'appoggio di Bettino Craxi, tutto il pentapartito era d'accordo. Ma c'era un ostacolo, Giulio Andreotti, all'epoca presidente del Consiglio. I capigruppo andarono a trovarlo a Palazzo Chigi per informalo della scelta finale: il candidato del partito sarebbe stato Forlani. Doveva essere una visita di cortesia, una formalità, visto che lui ufficialmente si era tirato fuori. Andreotti offrì un caffè, li lasciò parlare, ascoltò con il suo sorrisetto satanico, chino di lato la testa e disse: veramente, io ho già una trentina di parlamentari del Pci che vogliono votare per me...».

La fine della storia è nota, i franchi tiratori impallinarono sia Forlani che Andreotti. E dopo la strage di Capaci con la morte di Giovanni Falcone, al Quirinale ci andò Oscar Luigi Scalfaro.

«Sì. Bisogna aggiungere che quell'elezione decretò l'implosione della Democrazia Cristiana. Il duello, feroce sotto il minuetto delle dichiarazioni di amicizia: vai tu, io mi ritiro, no io sto al governo, io resto al partito... Poi lo stillicidio delle votazioni a vuoto e alla fine la salita al Colle di Scalfaro, teoricamente uno dei nostri, in realtà il più lontano. Per ritrovare un capo dello Stato amico abbiamo aspettato Carlo Azeglio Ciampi. Una scelta annunciata, trionfale. Senza troppi scabrosi retroscena».

E dopo Ciampi, il primo ex comunista al Quirinale. Che ricorda della corsa del 2006?

«Che i numeri dei grandi elettori erano a favore del centrosinistra. Che erano divisi. Che a un certo punto Giuliano Ferrara pubblicò un editoriale in favore di Massimo D'Alema. Che noi, la componente democristiana del centrodestra, sulle nostre dieci schede scrivemmo proprio Ferrara. Un segnale chiarissimo».

Berlusconi era d'accordo?

«Certo. Napolitano era più moderato, aveva un profilo istituzionale ed europeo, era stato presidente dalla Camera. Aveva più numeri ma, comunista per comunista, era preferibile un leader di prima fila come D'Alema».

Poi il Cavaliere sette anni dopo cambiò idea?

«Era cambiata la situazione. Il sistema era bloccato, serviva un reincarico al presidente e un esecutivo di unità nazionale. E non è vero, come si è detto, che Berlusconi fosse in rotta con il capo dello Stato per la caduta del suo governo. Tant' è vero che fu il primo a pregarlo di restare in carica. Lo considerava una garanzia. Poi finì come sappiamo».

D'accordo, il centrosinistra ha sempre avuto i numeri. Ma perché sette anni fa non avete votato anche voi per Sergio Mattarella? C'era il Patto del Nazareno con Matteo Renzi, potevate partecipare...

«Il Patto si ruppe proprio in quella occasione perché l'accordo era stato stretto su un altro nome. Renzi decise diversamente, però non c'era nulla di personale contro Mattarella. Anzi, Berlusconi autorizzò noi democristiani, direi quasi che ci spinse, a votare per lui. Dieci-quindici schede, come segno di buona volontà. Io ero felice. Ero stato nello stesso partito».

Tra un mese si ricomincia. Prevede un'altra corsa sul filo?

«Stavolta il candidato lo abbiamo noi e non loro. Berlusconi, che e il vero erede della Dc, può essere eletto tra il quarto e il quinto scrutinio con una maggioranza nemmeno risicata. Che sono 505 voti? Dopo tanto santi d'argento, tanti esterni portati in trionfo, sarà il ritorno della politica».

Allude a Mario Draghi?

«È bravissimo, sta salvando il Paese, ha rimesso in sesto l'economia. Lui non è proprio un intruso, la Banca d'Italia e l'ultima scuola politica che funziona. Ci ha dato Dini, Ciampi, ora Draghi.

Però adesso, a meno che non scoppi un'improbabile pace, è l'ora di Silvio».

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