Quando il destino dirotta e si schianta

Una storia a cui non credi neppure se te la raccontano: ora è difficile pensare a un pilota solo come a un professionista pagato per decollare, portarti in cielo e poi atterrare

Quando il destino dirotta e si schianta

Sono centoquarantanove più uno e nessuno sa che adesso sta per morire. Tranne uno. Come fai a fidarti di chi ti porta in cielo? Non puoi. Non è razionale. È un atto di fede. E la fede annulla la statistica, non ammette l'imponderabile. Tu prendi l'aereo convinto che il dovere del pilota sia decollare e atterrare. Alla fine magari fai anche l'applauso. Le paure pensi di conoscerle.

Le previsioni del tempo due giorni prima di partire. Speriamo che non ci siano i temporali, che poi si balla tutti. Le facce al check-in: chissà da dove arriva questo con la barba unta? E questa famiglia che si è portata dietro l'Asia? Ti tocca toglierti anche le scarpe per non far suonare tutto. È che con questa paura che c'è in giro ti controllano anche l'anima. Quello a cui non pensi sono gli amori del pilota. D'amore non si muore e poi chi se ne frega. Non sta mica lì per raccontarci i suoi fatti privati. È pagato per portarci in cielo e la professionalità non ha a che fare con i sentimenti.

A questa storia non ci credi neppure se te la raccontano. Neanche se ti giurano che è vera. Eppure adesso è così e sta lì a dire che il tuo destino passa per rotte inestricabili, fuori dai radar di quello che sei o che fai. Da qualche parte c'è una maledetta farfalla che gioca a dadi con la tua vita. Chi va quest'anno a fare le vacanze studio a Barcellona? Troppe richieste, dice il preside. Sorteggio. I ragazzi fortunati sono sedici. Gli altri sono tutti vivi.

Andrea Lubitz aveva passato tutti i test psicologici . Il copilota ha 27 anni e la faccia da biondino. Quando guarda l'orizzonte vede le Alpi e i suoi amici raccontano che fin da piccolo voleva fare il pilota. Nella sua casa di Montabaur, in Renania, le pagine più usurate sono quelle del Piccolo Principe. «Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua». Andrea non cercava più una stella, ma una montagna. «Se vuoi un amico, addomesticami». Fidarsi. Riconoscersi. Andrea non lo ha mai fatto perché non si fidava di se stesso. È lo spazio bianco nel suo addestramento. È il 2008, pausa, poi ricomincia. Affidabile, dicono. Bravo, sostengono. È nelle pause il senso di un'esistenza. Quella pausa in psichiatria si chiama sindrome di Burn out , un cortocircuito. Brucia Andrea, brucia dentro e fuori e brucia perché l'inferno sono gli altri. La vita fa schifo perché non sopporti quelli con cui lavori, il modo di parlare, di atteggiarsi, di masticare, l'odore della propria miseria umana, quei saluti ipocriti e sguardi silenziosi dove leggi che per te non c'è posto in questa bolgia. C'è un mondo fuori che tutti i giorni continua a farti paura. E allora voli ma poi torni al nido con i tuoi genitori. La sicurezza che cerchi è nel corpo, nella palestra, nelle pillole di vitamine comprate al supermercato sotto casa. «Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere». E poi sì, in una donna che ti veda come un dio. Ma l'amore gli umani, lo sanno, non è per sempre. «Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi». Dicono che lei sia italiana. È essenziale ed è diventata invisibile. Valeria C. potrebbe essere il nome che Andrea non sa dimenticare.

Il bagno è sempre in fondo a destra. Sono passati venti minuti dal decollo e per Patrick Sonderheimer è una giornata come le altre. Il comandante di solito non si alza, ma non c'è nulla di male a non aspettare l'arrivo in aeroporto per dare pace alla vescica. A 38mila piedi di quota si può. Lo dice il regolamento. Ci siamo. Patrick prepara il briefing per l'atterraggio. «Torno subito». Andrea risponde a monosillabi. «Prendi tu il comando». Questo è il momento. Le Alpi sono un magnete. Sono lì davanti, poco sotto. Andrea è solo. Su quell'aereo non c'è nessuno. Non esiste nessuno, o semplicemente non contano. Nessuna vita conta come la tua e in quella di Andrea mai come adesso vale zero. È il momento di iniziare la discesa. Giù, giù, giù. Si sente solo il respiro regolare. Il comandante chiude la lampo in fretta e corre verso la cabina di pilotaggio. Bussa, urla, prova. Niente. Nessun mayday, mayday . La torre di controllo di Marsiglia urla e la risposta è solo quel sospiro lento, cadenzato. Sono le dieci e quarantuno del mattino. Ci vogliono otto-nove minuti per arrivare contro la montagna. E ora provate a immaginare quanto sono lunghi. L'angoscia tremenda, la speranza di salvarsi, l'idea che prima o poi qualcosa accada, torni a respirare, e questa è solo una brutta storia da raccontare prima di salire sul prossimo aereo, perché le paure passano quando non c'è la fine. «Pensavo proprio di morire». Non immagini mai che possa capitare proprio a te. Nulla. Adesso c'è solo il nulla. La fiducia nel pilota è un puro atto di fede. In fondo volare è come andare in taxi. Solo che per gli aerei nessuno si chiede se il tassista è ubriaco, depresso o innamorato.

Sono le dieci e quarantanove del 25 marzo 2015.

Sul massiccio dei Tre vescovi in Alta Provenza ci sono i rottami dell'Airbus A320 della compagnia tedesca Germanwings e centoquarantanove persone non sanno perché sono morte. Se questa è la storia di un suicidio perché non ammazzarsi da solo? Lo sa solo il copilota Andrea Lubitz e dalle 10.31 ha smesso di rispondere.

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