Quanti "sì" al giustizialismo grillino: così Matteo diventa complice dei pm

Quanti "sì" al giustizialismo grillino:  così Matteo diventa complice dei pm

Nel Transatlantico deserto del week-end, Marco Maggioni, l'uomo chiave del Carroccio nella giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, l'organismo corrispettivo a quello che in Senato deciderà se Matteo Salvini dovrà essere processato nell'aula del Senato per l'accusa di sequestro di persona dei migranti della Diciotti, parla a ruota libera del «caso». «La richiesta di rinvio a giudizio del Tribunale dei ministri si sfoga è una follia sul piano politico e tecnico. Un'iniziativa talmente ridicola, che anche il pm di Catania aveva scartato, che finirà per portarci altro consenso. Il problema, però, è il protagonismo di una certa magistratura. Un protagonismo che a volte diventa il trampolino di lancio per arrivare alla politica. In fondo è un'opportunità per molti magistrati: si va in politica e poi, se va male, si torna a fare i giudici. Ed è una questione che dovremmo porci, soprattutto, noi leghisti. In fondo un esponente del Pd un santo in paradiso nella corrente di magistratura democratica lo trova. Come pure i 5stelle hanno il loro network nel settore, che li aiuta. A noi, invece, passano sopra come carri armati».

Lo «sfogo», perché di questo si tratta, offre un quadro preciso delle «ragioni» e delle «contraddizioni» del Salvini «imputato». Diciamo subito che le accuse rivolte dal Tribunale dei ministri al vicepremier non stanno né in cielo, né in terra. La decisione di tenere per un periodo i migranti sulla nave militare italiana si può condividere o meno, ma è stata squisitamente politica. In democrazie più antiche della nostra come gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia la tesi della messa in stato d'accusa del ministro dell'Interno nel caso in questione, non avrebbe cittadinanza. L'archiviazione maturata dalla Procura di Catania, dimostra indirettamente come la successiva decisione del Tribunale dei ministri sia opinabile e cavillosa. Ma, soprattutto, come esondi dalla sfera giudiziaria per entrare a gamba tesa nelle decisioni che spettano ad un ministro. Ripetendo un rituale che da decenni caratterizza il difficile rapporto tra potere politico e potere giudiziario nel nostro Paese. Ogni scelta di governo, che divida l'opinione pubblica e susciti polemiche, è destino, infatti, che abbia una coda in qualche tribunale. Appena si apre uno spazio c'è sempre la possibilità che qualche magistrato lo occupi, magari ci investa con il recondito obiettivo di coltivare la propria immagine, svolgendo un discutibile ruolo di supplenza dell'opposizione, e trasferendo quel confronto che avrebbe nelle aule del Parlamento il naturale habitat, di fronte a qualche Corte di giustizia. Risultato: o la politica tira a campare e si condanna all'immobilismo; o sceglie, ben sapendo, che quando si toccano certi temi, o interessi, «sensibili», lo scontro si svolgerà su diversi piani, compreso quello giudiziario. In un modo o nell'altro è un'esperienza che negli ultimi 30 anni hanno fatto diversi governi e molti ministri, prima di Salvini.

Fin qui le ragioni del leader leghista. Poi ci sono le contraddizioni. La prima riguarda i suoi compagni di strada nel governo. Il principio, teorizzato anche in questi giorni da Di Maio e soci, di dare sempre e comunque il via libera ad un'autorizzazione a procedere contro un parlamentare è funzionale alla «patologia» del protagonismo di certi magistrati e, nei fatti, determina uno squilibrio tra potere politico e giudiziario: in questa logica un politico, va sempre e comunque, processato. Può essere messo sempre sotto scacco. Inoltre la produzione legislativa di questo governo ha aumentato a dismisura il potere di un qualsiasi sostituto procuratore. Basta leggere in controluce le norme contenute nel provvedimento sull'anticorruzione (l'eliminazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, l'uso dei trojan e degli agenti provocatori nelle inchieste sulla pubblica amministrazione, etc.) dimostrano che ci si avvia verso uno stato poliziesco, in cui i pm possono tutto: siamo all'apoteosi del giustizialismo. Di contro non è stato preso nessun provvedimento che punti a porre dei limiti al protagonismo di certi magistrati o a determinare dei confini invalicabili tra politica e magistratura. «Si sono allargati a dismisura i poteri dei pm osserva sconsolato Marco Zanettin, esponente di Forza Italia ma intanto la mia legge per impedire l'andirivieni di magistrati che vanno in politica e poi tornano indietro, langue».

Insomma, Salvini da una parte si lamenta per il «protagonismo» di certa magistratura, dall'altra concorre a creare l'«humus» più favorevole ad essa. Con il rischio di esserne vittima. Si torna quindi alla contraddizione di sempre, di un governo composto da due partiti che spesso sono agli antipodi. Del resto, non passa giorno il cui il vicepremier rivendichi il ruolo di rappresentante dell'Italia del «Sì» contrapposta a quella del «No» dei grillini. Dalla Tav agli investimenti.

Solo che la risultante del compromesso tra il «Sì» e il «No», magari con il concorso di qualche magistrato, è il «Ni». Un'espressione scherzosa, recita il vocabolario, per indicare una condizione né sì, né no. Appunto, più che un governo, è uno scherzo.

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