Quelle icone della tragedia che marchiano la coscienza

L'uomo che si getta dalle Torri Gemelle e i kamikaze sono le immagini condivise del mondo globalizzato

Quelle icone della tragedia che marchiano la coscienza

Era il 1992, in una società ben più pacificata della nostra, quando il fotografo americano Andres Serrano fece molto discutere con la mostra The Morgue alla galleria Paula Cooper di New York; in una ventina di scatti espose la morte violenta in ogni sua forma, immortalando i cadaveri all'interno di un obitorio. All'epoca questo genere di rappresentazione risultava ancora un tabù, secondo il ben noto concetto espresso da Georges Bataille nel saggio sull'erotismo: la morte in quanto oscenità doveva rimanere dietro le quinte come nel teatro classico. Persino la Guerra del Golfo aveva ridotto al minimo ogni violenza reale, riflettendo la coeva estetica dei videogames.

Con l'attentato alle Torri Gemelle del settembre 2001, simbolo dell'entrata nell'era del terrorismo, la morte ha fatto prepotentemente il suo ingresso nella cronaca quotidiana e nella storia del nuovo secolo: le immagini di corpi in volo dai piani alti dei grattacieli, destinati dopo pochi secondi a schiantarsi al suolo, sono diventate il simbolo dell'uomo vittima sacrificale della follia e del dolore. Immagini condivise in ogni dove e da chiunque proprio nel tempo in cui la nascente rete le avrebbe rapidamente moltiplicate e parcellizzate. Persino l'artista tedesco Wolfgang Stahle scelse il campo lungo sull'attacco aereo in quanto forma definitiva della realtà e non più superabile da nessuna forma di fiction.

Ciò che sta accadendo nei giorni nostri, e purtroppo destinato a superarsi trovando forme sempre più eclatanti, concerne letteralmente l'esplosione mediatica e virale della violenza. Non c'è più bisogno della troupe televisiva poiché chiunque, con uno smartphone o un tablet, è in grado di riprendere l'attimo esatto in cui qualcuno decide di proiettarci nel suo delirio: il kamikaze che si fa esplodere in aeroporto, il tir che falcia i passanti, oppure, se vogliamo per un momento uscire dall'ambito del terrorismo, l'esecuzione di un malcapitato filmata da una telecamera a circuito chiuso di un negozio, sono tutte sequenze che ormai conosciamo a memoria.

L'attuale messinscena della morte, tuttavia, sembra delineare una profonda differenza rispetto all'iconografia cattolica e al senso di sacrificio implicito al corpo stesso, architettato a suo tempo dalle Brigate Rosse negli anni '70 con la «deposizione» rispettosa del cadavere di Aldo Moro a Imago Christi nel baule dell'auto. Quelli dei terroristi islamici non restano che brandelli privi di alcuna interezza e integrità, perdono il senso di carne, lacerti senza memoria di sé. Siamo spinti a osservare l'orrore senza alcuna forma di piacere, non solo perché non si tratta di un film di genere, ma soprattutto perché la nostra cultura rifiuta categoricamente l'atto di dissoluzione del corpo. Persino nei casi più drammatici noi attribuiamo ai morti l'onore della ricostruzione, ricomponendoli per l'ultima esposizione davanti ai loro cari.

Una bomba che uccide prima l'attentatore, la corsa di un mezzo suicida definisce l'incolmabile distanza tra noi e gli altri, tra cultura di vita e ossessione distruttiva, che le immagini, a saperle leggere, descrivono più acutamente di mille parole.

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