"Qui è casa nostra, non ce ne andiamo". Walter e Gisella pronti a sfidare l'inferno

La coppia vive nella periferia Ovest di Kiev: "Non scappiamo davanti ai russi". Prima della guerra c'erano 2mila connazionali, ora solo 500

"Qui è casa nostra, non ce ne andiamo". Walter e Gisella pronti a sfidare l'inferno

Le colonne di fumo nero si alzano minacciose verso il cielo. La strada è deserta e fa presagire il peggio. Dopo un paio di curve si apre uno scenario da inferno, come la scritta rossa su un camion bianco che serve da barricata a Kiev. Un grosso stabilimento e una serie di magazzini sono stati pesantemente bombardati. Le strutture restano in piedi anche se scarnificate dalle esplosioni e totalmente annerite dagli incendi. Il fumo esce da ogni finestra divelta e la strada è cosparsa di detriti e schegge. L'impianto non sembra avere alcuna impronta militare e la conferma arriva da Alexander, il nostro spericolato autista, che conosce bene questa zona alle porte di Kiev. La cappa di tensione si taglia con il coltello, ma rallentiamo per documentare la scena dell'attacco missilistico. Il bersaglio si estende per un centinaio di metri e quello che resta della struttura originale è un enorme cubo annerito dalle fiamme.

Ci siamo infilati nella periferia ad ovest di Kiev bombardata dai russi alla ricerca di Walter Rossit, un italiano che da 28 anni vive in Ucraina, dove ha conosciuto Gisella la compagna della vita.

Prima della guerra i connazionali erano oltre 2000 e nelle capitale ben 750. Adesso sarebbero rimasti 500 in tutto il paese, ma nessuno sa o vuole confermare il numero.

Nel sobborgo di Kiev non si vede anima, a parte un posto di blocco di riservisti con il dito sul grilletto fra sacchetti di sabbia e blocchi di cemento. «Giornalisti italiani?» ci guardano come marziani increduli che siamo arrivati fino ad un passo dal fronte con i russi. Poche centinaia di metri più avanti si apre un quartiere di condomini in stilo sovietico alti nove piani. Al quarto troviamo finalmente la porta di Rossit, originario di Portogruaro, famoso ristoratore che per un quarto di secolo ha gestito uno dei più famosi locali di Kiev dietro piazza Maidan. Quando apre l'abbraccio è spontaneo. «Ho già vissuto due rivoluzioni (l'arancione e quella di Maidan nda) e adesso una guerra. Non me ne vado» attacca subito davanti ad un vero caffè italiano. «Cinque giorni fa hanno cominciato a bombardare qui vicino» racconta avvicinandosi alla finestra della cucina. «Vedi il bosco davanti? Ho sentito un tremendo boato e si è alzata una colonna di fumo nero. Poi altra bomba o missile alle nostre spalle» spiega Rossit, capelli argento, 68 anni e sempre in forma. Gisella ci mostra il terrazzino dove hanno sistemato le scorte. «Dopo le esplosioni sono arrivati gli elicotteri russi, due, che volavano a bassa quota. Da sabato non abbiamo più elettricità e acqua calda, ma ci arrangiamo con delle stufette. Ogni tanto torna la corrente» spiega l'italiano vicino al fronte di guerra a Kiev. Metà degli ucraini del quartiere sono scappati verso Ovest. «Paura? Quando tremano le finestre e scattano gli allarmi delle macchine pensi: speriamo che un colpo non arrivi anche da me» ammette Rossit.

Walter e Gisella scendono le scale per mostrarci il vecchio bunker riattivato per la nuova guerra. Un postaccio dove a malapena si riesce a stare in piedi, umido e polveroso, ma sicuro in caso di bombardamenti intensi.

«Affrontiamo il pericolo senza farci prendere dal panico» osserva Walter. Poi aggiunge: «Dove andiamo? In Italia non ho nulla. L'Ucraina è la mia seconda patria. Aspettiamo. Questa è casa nostra. Non scappiamo anche se arrivano i russi».

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