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Il ragazzo che vuol conoscere i fratelli rubati dalla giustizia

Lui ha 15 anni e nel 1998 i giudici tolsero ai suoi genitori gli altri figli. Ma le accuse di pedofilia erano false: quei bimbi non hanno mai più rivisto la propria famiglia

Il ragazzo che vuol conoscere i fratelli rubati dalla giustizia

C'è un ragazzo di 15 anni che vorrebbe conoscere i suoi quattro fratelli. Non li ha mai visti e di loro sa solo quello che gli hanno detto fra spilli di dolore mamma Lorena e papà Delfino. Nella famiglia di Lorena Morselli il tempo è fermo, pietrificato a quel mattino di novembre 1998. «Alle 5.30 di un freddo mattino del novembre 1998 - scrive Stefano - sette agenti di polizia sono entrati in casa, hanno rovistato dappertutto, hanno portato via i miei fratelli...li hanno allontanati e separati. Da quel giorno nessuno li ha più rivisti». Stefano è nato dopo, quando la famiglia non c'era più. Lorena e Delfino chiedevano un numero di telefono e non lo ricevevano, si rivolgevano ai servizi sociali e venivano congedati sbrigativamente, inviavano regali che tornavano puntualmente indietro. Un'incomunicabilità assoluta che ha avvelenato gli affetti fino a consumarli. E così servono a poco le sentenze se arrivano sedici anni dopo. Il verdetto della Cassazione non potrà ricomporre quel nucleo smembrato a forza in quel novembre '98. Lorena è innocente, l'accusa, infamante di pedofilia è caduta definitivamente, ma ormai è tardi. È tardi per una mamma che ha versato chissà quante lacrime, è tardi per Delfino portato via da un infarto nell'agosto del 2013, è tardi per Stefano che è cresciuto in «esilio», in Provenza, senza aver mai giocato o litigato con i fratelli e le sorelle. È tardi anche per loro: oggi sono maggiorenni e quell'addio violento, traumatico come un incidente, l'hanno fatto diventare una maledizione: non vogliono più incontrare la madre, non sono andati al funerale del padre e hanno rinunciato all'eredità, hanno tagliato tutti i fili che la giustizia aveva già staccato.

L'ipotesi iniziale, nell'autunno del '98, è quasi incredibile. C'è un'inchiesta che dilaga nei paesi della Bassa Modenese. Casi di pedofilia, violenze in famiglia. Storie drammatiche e terribili e però qualcosa non quadra. Bambini fragili, figli di madri malate, trasformano labili suggestioni in deposizioni zeppe di nomi e cognomi e cominciano a puntare il dito in tutte le direzioni. Sembra un contagio. Inarrestabile e francamente sbalorditivo. Si parla di messe nere e riti satanici compiuti in piena notte nel cimitero di Massa Finalese. Possibile? I racconti superano ogni immaginazione. Ecco i neonati che si accoppiano e poi vengono uccisi. Possibile? La procura di Modena, che prende tutta la storia sul serio, fa dragare i corsi d 'acqua alla ricerca dei corpicini che nessuno troverà. E però le accuse si moltiplicano e toccano tante famiglie. Troppe, anche dal punto di vista statistico. Il 12 novembre 1998 la polizia bussa a casa di Lorena e Delfino. I bambini vengono portati via con una motivazione stupefacente: di notte, mente i genitori dormono, partecipano tutti e quattro ai riti satanici. E allora se papà e mamma non si accorgono di questi scempi vuol dire che sono inadeguati ed è giusto togliere loro la prole. In blocco. Senza se senza ma. Lorena e Delfino si difendono: «Ma quali messe nere. I nostri bambini di notte riposano nelle loro camerette. Di giorno invece vanno a scuola. Vanno a catechismo. Fanno sport, nessuno ha mai avuto nulla da dire». E invece dai verbali sembra di stare dentro un film dell'orrore con rapporti sessuali e sacrifici umani che lasciano sbalorditi. Il futuro è galantuomo, ma il presente è malato. E la malattia diventa un'epidemia. Nei verbali finisce pure un vescovo: ma per sua fortuna almeno lui non rotola nel registro degli indagati. Quando è troppo è troppo. I quattro bambini invece dopo qualche settimana cambiano registro: «Mamma Lorena -spiegano - ci teneva fermi, papà Delfino approfittava di noi». Interrogatori. Verbali su verbali. Deposizioni dietro un vetro a specchio. Le gite in macchina. Le torte. Le partite a calcio. Le pagelle. Tutto finito. Tutto risucchiato dentro quel buio livido, popolato di mostri e fantasmi. Il paese sta con Lorena e Delfino, il parroco si mete le mani nei capelli ed elogia Lorena, catechista, madre di famiglia esemplare, nulla a che fare con una fantomatica Tween Peaks padana. C'è una sproporzione che toglie il fiato fra le accuse imbullonate in una violenza cieca e ottusa e la semplicità disarmante dei protagonisti. I mostri della porta accanto che nessuno, tranne l'apparato giudiziario, ritiene colpevoli anche solo di aver dato uno schiaffone di troppo ai ragazzi. Il procedimento, come speso capita in Italia, si divide in diversi tronconi. Le condanne si mischiano alle assoluzioni. Lorena e Delfino in primo grado vengono stangati: 12 anni a testa. Un'enormità. I due si disperano e affidano al Giornale il loro disperato messaggio in bottiglia: «Vogliamo l'appello. Subito. Siamo innocenti. Siamo angosciati per i nostri figli. Chissà che cosa gli hanno raccontato. Chissà che cosa pensano di noi. Chissà come si trovano nelle nuove famiglie». Ma ormai il naufragio è avvenuto: Stefano, il quinto figlio della coppia, nasce e cresce in Provenza lontano da quell'ambiente così pericoloso. L'appello invece arriva dopo otto lunghissimi anni, nel 2010 e capovolge il destino della coppia: Lorena e Delfino vengono assolti. Altro paradosso, senza aver fatto un solo giorno di galera. Intanto sono evaporate le messe nere, sono spariti nel nulla i riti satanici che nemmeno nei film sull'America preincaica, sono svanite le processioni in maschera nel lugubre teatro del cimitero. E viene riabilitato anche don Giorgio Govoni, il prete che avrebbe diretto le funzioni profanatrici e tradito la sua missione preferendo Satana a Cristo. Viene di fatto assolto ma è tardi, troppo tardi, anche per lui: è morto d'infarto alla vigilia del verdetto d'appello nello studio del suo avvocato a Modena.

Troppi lutti. Troppa sofferenza. Troppo tempo. Il mantello purificatore della Cassazione copre la vergogna pochi giorni fa, sedici anni dopo il disastro. Stefano dalla Provenza si rivolge al papà che non c'è più: «I miei genitori cercavano di spiegarmi, ma era troppo complicato, a me bastava avere la mamma, il papà, parenti, tanti amici, andare a scuola, a judo, a musica, agli scout. Mi parlavano tanto dei miei fratelli. Guardavo le foto di una bella famiglia. Come avrei voluto conoscerli, vivere con loro, presentarli a tutti». Un sogno spezzato. In un diluvio interminabile di carte bollate. Stefano non si arrende e difende il suo spicchio di normalità: «Eravamo tifosi del Milan, papà mi comprava i cappelli, le magliette rossonere, aveva promesso che mi avrebbe portato a vedere le partite a San Siro, come faceva con loro». Con i fratellini e le sorelline prima che fossero ghermiti dalla giustizia.

«Vorrei rivederli -azzarda Lorena - in tribunale si sono girati dall'altra parte ma io non rinuncerò mai a cercarli». L'avvocato Cristina Tassi, a fianco di Lorena per sedici anni, prepara invece una richiesta di risarcimento: «Non c'è prezzo per quello è che è successo. Lo Stato dovrà pagare».

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