Roma - Alla data cui si è impiccata da sé, quella del 7 luglio, la neo-sindaca della Capitale dovrà in qualche modo arrivare pronta.
Quel giorno, ha annunciato con sicumera Virginia Raggi dopo un intervento preoccupato della Casaleggio Associati, svelerà finalmente al globo terracqueo, alla fine di una serie di rocamboleschi rinvii che vanno avanti dal primo turno delle amministrative, la lista degli assessori che dovrebbero costituire il governo di Roma. Impresa improba: l'elenco dei «no grazie» si allunga ogni ora, le poche nomine annunciate già ballano. Una delle più prestigiose, quella di Cristina Pronello ai Trasporti, è ingloriosamente tramontata: la docente del Politecnico di Torino, annusata l'aria, si è lestamente tirata indietro. Incerta anche Daniela Morgante al Bilancio. Non si sa che fine farà Daniele Frongia, legatissimo alla Raggi che lo voleva capo gabinetto, nonostante i rischi di incompatibilità ex legge Severino. Forse vice-sindaco, forse boh. Nel frattempo il poveretto, che via Facebook fa sapere che «il fantasmagorico stipendio da 180mila euro» che gli era stato attribuito come capo gabinetto non è stato ancora deliberato, si è dimesso da consigliere comunale, e un posto al sole dovrà pur trovarlo. Colpo d'ascia della ditta milanese anche sulla nomina dell'alemanniano Raffaele Marra a vice capo di gabinetto: l'ordinanza dovrà essere revocata per evitare pubblicità negative, avrebbe deciso la Casaleggio. Dal Campidoglio in affanno filtrano spiegazioni bizzarre, in bocca ai professionisti dell'Anticasta: «Non troviamo nessuno perché 67mila euro lordi l'anno sono troppo pochi per fare l'assessore». Ma guarda un po'.
Arrivare pronti al 7 luglio insomma non sarà facile: le teste hanno cominciato a cadere ancor prima delle nomine, fatto più unico che raro nella politica mondiale e che per ora costituisce l'unica effettiva «diversità» del Movimento Cinque Stelle. Perché, per il resto, si stanno con inaspettata velocità dimostrando proprio uguali alle più vecchie - e meno gloriose - tradizioni dei corridoi del sottopotere capitolino, condite dal tipico scissionismo gruppettaro della sinistra: riciclaggio di ex (dall'uomo di macchina di Alemanno, alla assessora di Marino, al pupillo di D'Alema); risse tra correnti e mini-correnti; guerre di dossier che nemmeno nella Dc andreottiana; dilagante Parentopoli negli incarichi, assegnati alla moglie del tale e al fidanzato della talaltra, al figlio e al cugino, alla nuora e alla nipote. Tutti a timbro grillino, sia pur di diverse obbedienze.
Eppure la Raggi e lo «staff» multicorrentizio che ne controlla i passettini sapevano da mesi che la vittoria a Roma era molto probabile: possibile che non siano riusciti a prepararsi uno straccio di road-map e a selezionare un nucleo duro di nomi di qualche prestigio, sapendo che avrebbero avuto addosso i riflettori nazionali e non solo? Possibile. All'«appuntamento storico» liricamente annunciato dai leaderini nazionali, da Di Battista a Di Maio, i Cinque Stelle sono arrivati non solo del tutto impreparati, ma anche dilaniati da una lotta intestina feroce, di cui ogni giorno viene alla luce un inquietante frammento. La faida interna viene da lontano, dallo scontro (a colpi di reciproci dossieraggi, come ha rivelato il Fatto) sulla scelta del candidato sindaco tra la cordata di Roberta Lombardi che voleva Marcello De Vito e quella Di Battista-Taverna che sponsorizzava Virginia.
Ieri, per tentare di distrarre l'attenzione dall'impasse totale, Raggi ha attaccato l'Acea (multi-utility controllata dal Campidoglio) chiedendo «chiarimenti su alcune nomine dirigenziali effettuate di recente», domandando di «poter visionare i curriculum» dei prescelti.
Il tutto condito con triti slogan sull'«acqua bene comune», che fanno sempre il loro effetto nel sinistrismo romano. Nel frattempo, e senza streaming, prosegue la disperata lotta contro il tempo e contro il manuale Cencelli a Cinque Stelle per tirar fuori una giunta.
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