Bashar el-Assad è l'Hitler del Terzo millennio o solo uno dei tanti dittatori mediorientali che reagiscono con ogni mezzo lecito e illecito - agli assalti di forze che, alla resa dei conti, sono anche nostre nemiche? L'Occidente non è molto coerente in proposito. Per anni, dopo lo scoppio della guerra civile, la parola d'ordine era di liberarsi al più presto di lui. Sia Obama, sia i leader europei, erano ancora pieni di illusioni sulle primavere arabe e ritenevano indispensabile che dopo Ben Ali, Mubarak e Gheddafi anche il Raìs siriano dovesse pagare per la brutale repressione di una rivolta che, almeno agli inizi, sembrava di matrice democratica e popolare.
Dopo un attacco con armi chimiche che fece 1.400 morti, Obama si era addirittura impegnato a intervenire militarmente in Siria se avesse commesso di nuovo un misfatto del genere, ma, vista la reazione perplessa del Congresso e della Camera dei Comuni britannica (e, privatamente, dello stesso Trump), aveva finito con l'accettare un compromesso proposto da Putin che pure, fin dall'inizio, era apparso alquanto lacunoso: niente attacco in cambio della consegna a una organizzazione dell'Onu di tutto l'arsenale chimico in possesso della Siria.
Dopo questa prima svolta, l'atteggiamento nei suoi confronti è gradualmente cambiato: le diplomazie occidentali si sono rese conto che, sia pure grazie all'aiuto dell'Iran e degli Hezbollah non solo egli era rimasto saldo in sella, ma dopo la nascita del Califfato era diventato addirittura un indispensabile «semi-alleato» nella lotta contro l'estremismo islamista. Quando, poi, in suo soccorso è arrivata anche la Russia,si sono accantonate le ultime riserve sulla sua inclusione nelle tanto auspicate trattative di pace e negoziati (attualmente in corso a Bruxelles) per il finanziamento della ricostruzione del Paese.
A formalizzare la nuova politica è stata, la scorsa settimana, l'amministrazione Trump, che ha dichiarato che la permanenza al potere di Assad era «una realtà di cui bisognava prendere atto». Poi, martedì, è arrivato il massacro di Khan Sheikun, dove un agente chimico apparentemente sganciato da un aereo ha fatto un centinaio di morti civili, tra cui molti bambini. Un portavoce russo ha cercato di scagionare il regime, asserendo (e la cosa, visti alcuni precedenti, non è del tutto inverosimile) che in realtà il gas mortale si è diffuso in città perché una bomba è caduta su un deposito di armi chimiche dei ribelli in controllo della cittadina, un gruppo oltre tutto legato ad Al Qaida, ma in Occidente nessuno ha accettato questa versione. Di colpo, senza una verifica indipendente delle responsabilità, Assad è ritornato «il macellaio di Damasco», Trump in persona ha definito l'episodio un atto riprovevole contro gente innocente che non può essere ignorato dal mondo civile, il segretario di Stato Tillerson ha invitato perentoriamente Russia e Iran, i due protettori del dittatore, a bloccare ulteriori attacchi del genere e i membri occidentali del Consiglio di Sicurezza hanno redatto una durissima reazione di condanna in cui si invita tra l'altro il governo siriano a fornire nomi e cognomi di tutti coloro che sono stati coinvolti nel crimine, perché possano essere processati per crimini di guerra.
La domanda cui nessuno ha ancora saputo rispondere è quale interesse potesse avere Assad a ordinare un attacco chimico contro una sperduta cittadina della provincia di Idlib, che non gli avrebbe portato alcun vantaggio sul piano militare, ma lo avrebbe riportato di colpo alla casella zero nella sua marcia verso una almeno parziale riabilitazione ed avrebbe anche messo in grave imbarazzo il suo alleato Putin.
Voleva mettere fine al coprifuoco che, bene o male, tiene dopo la sua riconquista di Aleppo per riprendere l'offensiva contro i ribelli che minacciano la zona alawita? Voleva dare alla popolazione una arrogante dimostrazione del suo ritrovato potere? L'iniziativa è stata presa a sua insaputa da qualche comandante? Oppure le armi chimiche appartenevano davvero ai ribelli, che ne avevano fatto uso almeno due volte in passato? Certo, l'orrenda strage complica ulteriormente una situazione già complicatissima, compromette qualsiasi collaborazione con il regime, rimette in causa i negoziati che si stavano avviando a Ginevra: insomma, fa di nuovo della pace un miraggio.
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