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Ravasi su Montanelli: voleva l'eutanasia ma è morto con il conforto di chi amava

La lettera del monsignore per la scomparsa del fondatore del "Giornale"

Ravasi su Montanelli: voleva l'eutanasia ma è morto con il conforto di chi amava

Pubblichiamo ampi stralci della lettera che monsignor Gianfranco Ravasi scrisse su Indro Montanelli dopo la sua morte.

Il 22 luglio 2001 moriva a Milano Indro Montanelli. Desidero ricordarne la figura attraverso una riflessione su un tema delicato che lo aveva tormentato: la legittimità dell'eutanasia. Partirò da due esperienze personali. In un'estate degli anni Settanta mi trovavo nell'Irak settentrionale. Avevo fatto amicizia con un contadino musulmano, si vedeva che era preoccupato e triste. Una sera mi invitò a casa sua. Nella stanza principale, su un giaciglio, era disteso suo padre moribondo. Non me ne accorsi subito perché attorno a quel letto si affollavano anche i bambini che un po' seguivano i lamenti del nonno, un po' giocavano e scherzavano. Quando socchiudeva le palpebre, aveva gli occhi lucidi di febbre ma anche brillanti di fiducia perché le sue ultime ore s'immergevano in quella quotidianità da lui sempre vissuta e amata.

Qualche tempo dopo era fine maggio del 1975 la morte si prese la persona che più ho amato e con la quale ho avuto il dialogo più intenso, mia madre. Gli ultimi suoi giorni trascorsero in una stanza di rianimazione, nell'isolamento più assoluto, tra macchinari freddi e ronzanti, in un'atmosfera algida e asettica. Mezz'ora prima che morisse (per altro in modo improvviso e inatteso) fui ammesso, mascherato e rivestito di camice, da un'infermiera sgarbata e subito richiamato da un medico a sbrigarmi perché quella era un'eccezione. In questi due estremi si racchiudono due modelli di morte: la prima è la vera «eu-tanasia», la morte dolce e familiare; l'altra è la morte amara, clinica, solitaria.

Per Montanelli «persona» s'identificava con «individuo», saldo nella sua autonomia, soggetto ultimo della sua libertà di scelta su se stesso. Bisogna però pur sempre riconoscere che nessuno si dà la propria vita. Essa è sostanzialmente un «dato» e un dono che ha in sé una sua natura prefissata, una sua struttura costitutiva e dinamica. È un bene «disponibile» perché è tra le mani di una creatura libera, ma è contemporaneamente «indisponibile» nella sua struttura radicale fatta di nascita-crescita-morte, tant'è vero che è comune la reazione a ogni tentazione eugenetica, a ogni stravolgimento genetico, a ogni soppressione legalizzata.

C'è un essere in sé. Per il credente questo aspetto è riferito al Creatore (come diceva Hölderlin «la vita degli uomini è un'immagine della divinità»). Per il «laico» sarà la natura che ci precede e segue. Per Einstein «essere consci del lato misterioso e indisponibile della vita è il più bel sentimento che ci sia dato provare: sta alla radice di ogni arte e di ogni scienza vera».

A questa componente capitale dev'essere poi aggiunta la dimensione sociale. Non si appartiene mai esclusivamente a se stessi. La libertà del singolo è un valore altissimo e radicale, ma si esercita in un equilibrio con la relazione nei confronti dell'altro. Vita e morte non si riducono per l'uomo e la donna a un mero evento biologico.

Ma c'è un'altra pista che le parole di Montanelli facevano intravedere: il suo pessimismo profondo era alimentato da una radicale solitudine. Nei suoi scritti accennava spesso a quel corollario che è il gorgo oscuro della depressione da cui era stato in certi momenti attratto e catturato. In questa luce acquista particolare valore il discorso sulla dignità del morire. Perché non tagliare in modo deciso e reciso il nodo della morte indegna? La domanda merita una risposta. Essa ci riporta a quelle due morti identiche eppur differenti. Si profonde più nella cura della malattia che non nella cura del malato. Il risultato non è la guarigione ma un prolungamento del processo patologico che si configura quasi in un'estensione agonica. Si delinea così la necessità della determinazione di una sorta di etica del morire, di una carta dei diritti del morente: essere informati con delicatezza; essere considerati sempre persona con dignità sino alla fine; essere curati e assistiti; esprimere le proprie emozioni e sensazioni e così via.

Ma c'è un altro volto della dignità violata del morire, che forse Montanelli sentiva come inevitabile, quello dell'essere isolati e soli. Tanti medici fanno notare che il cosiddetto «testamento biologico» è steso in tempi esistenzialmente diversi: si è seduti, ancora sani e «benestanti» e forse si esorcizza la paura della morte col ricorso al taglio netto e immaginato come ovvio e facile dell'eutanasia «attiva». Quando però si è in quella galleria oscura, il seme mai inaridito della speranza affiora. La richiesta di eutanasia in quella fase terminale, più rara di quanto si immagini, è forse un estremo appello a non essere lasciati soli. È soprattutto la presenza di chi si ama a trasfigurare quel travaglio tenebroso, proprio come accadeva a quel vecchio arabo che sentiva attorno a sé le lacrime ma anche il riso dei bambini, l'odore della sua casa, il calore della sua terra.

A Montanelli quel Dio a cui avrebbe voluto affidarsi nella fede e non solo dichiararne la pura esistenza, ha concesso il dono di una morte autenticamente umana: accanto a lui, infatti, ci sono state in quegli istanti le persone che l'avevano amato e l'amavano.

Come scriveva Erich Fromm nel suo saggio Dalla parte dell'uomo, «morire può essere tremendo, ma l'idea di dover morire senza aver vissuto veramente è insopportabile».

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