«Sperimamo che la Fiom cambi linea, perché una sconfitta referendaria cancellerebbe la Cgil dalla scena per dieci anni», sussurravano nei giorni scorsi esponenti del primo sindacato italiano. Non c'è più sintonia tra Susanna Camusso e il leader della Fiom Maurizio Landini. Finito l'idillio di quale mese fa, quando il segretario generale della Fiom smise di flirtare con Matteo Renzi. Cancellata anche la tregua siglata meno di due settimane fa. Quando - tanto per intenderci - il leader della Fiom smentì il titolo dell'intervista al Fatto Quotidiano su una sua discesa in politica.
Proprio in quei giorni, forse per compensare la rinuncia a un partito vicino alla Fiom, gli stessi Landini e Camusso annunciarono una iniziativa forte contro l'unica vera riforma del governo Renzi: un referendum abrogativo del Jobs Act. «Se necessario» lo sosterremo «dato che il diritto del lavoro è stato saccheggiato dal governo», spiegò Camusso.
Ma da qualche giorno il leader della Cgil ha cambiato idea. Vorrebbe puntare su una proposta di legge popolare, strumento al riparo dal rischio fallimento, rinunciando al referendum che, in confronto, sarebbe una bomba atomica contro una riforma che a Renzi preme. Proprio ieri il premier l'ha definita «una grande rivoluzione che ci porterà fuori dalle secche. Nel 2015 ci saranno più assunzioni che licenziamenti».
I motivi del cambiamento di strategia sono diversi e segnano la distanza di strategia tra il leader di Corso d'Italia e quello delle tute blu. Innanzitutto le urne referendarie portano male al sindacato. C'è il precedente storico della consultazione del 1985 sulla scala mobile, che segnò una sconfitta dalla quale la Cgil si riprese solo nel 2002, con la maxi manifestazione di Sergio Cofferati al Circo Massimo. Poi, i temi del lavoro non sfondano mai. Proprio sull'articolo 18 Rifondazione comunista tentò di estendere il diritto al reintegro alle piccole imprese, ma raccolse una affluenza del 25,5%.
Se la Cgil non riuscisse a portare alle urne la metà degli italiani balzerebbe agli occhi di tutti il fatto che il sindacato conflittuale e politicizzato non è in sintonia con il Paese. Stesso risultato politico se invece ci fosse l'affluenza richiesta (il 50% più un elettore), ma prevalessero i «no» all'abrogazione.
Dividere il Paese in due non conviene alla Cgil, ma potrebbe convenire al leader della Fiom, soprattutto se sceglierà la carriera politica. Un nuovo partito di sinistra-sinistra non punterebbe certo alla maggioranza assoluta, ma a un buon risultato. Anche un referendum fallito potrebbe rappresentare un trampolino per un partito a vocazione minoritaria.
Camusso, al contrario, non può permettersi di spaccare il Paese. A convincerla definitivamente - spiegavano ieri fonti sindacali - sono stati anche i primi risultati delle elezioni delle Rsu (le rappresentanze sindacali) nel pubblico impiego. Si profilerebbe una sconfitta netta per la Cgil, a vantaggio degli altri sindacati, che a Corso d'Italia è stata già interpretata coma un risultato della sovraesposizione su temi politici, poco sentiti dagli italiani.
Un'altra cosa che Camusso non si può permettere è una guerra aperta a Matteo Renzi. Se da una parte il premier ha mostrato il suo lato decisionista anche da danno dei sindacati, non facendogli mettere bocca sulle riforme, dall'altro non li ha penalizzati sul lato finanziario, ad esempio sui finanziamenti ai patronati.
Senza contare che i prossimi decreti attuativi del Jobs Act, potrebbero nascondere un regalo alle stesse confederazioni, rendendoli soggetti privilegiati nella gestione del ricollocamento dei lavoratori licenziati. Un decreto che le organizzazioni dei lavoratori non vorranno abrogare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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