U n copione che si ripete alla vigilia delle leggi di Stabilità e a ogni vertice italo-tedesco. Il governo canta vittoria, sostiene di avere convinto il paese capofila dei rigoristi (che è anche l'azionista di maggioranza dell'Ue) a fare allargare i cordoni della borsa di Bruxelles. Salvo poi, a «Finanziaria» approvata, scoprire che non era vero e che di aperture – almeno fino a quando avremo un debito pubblico monstre quale è il nostro - all'Italia toccherà rispettare alla lettera i trattati europei. E che la Germania non ha concesso nulla.
Lunedì, tra un bagno di folla, qualche fischio e le visite ai padiglioni di Expo, pare che il premier Matteo Renzi e la cancelliera Angela Merkel abbiano trovato il tempo per concordare sulla fine del Vecchio continente come «fortezza del rigore». Alcuni giornali hanno addirittura parlato di un «patto» tra i due.
L'obiettivo di Roma non è tanto un cambio di filosofia dell'Europa, ma trovare soldi per la legge di Stabilità che inizierà il suo percorso in autunno e che è già stata stimata in 25 miliardi. Renzi e il ministro Pier Carlo Padoan vogliono ottenere che la Commissione Ue accetti nel 2016 un rapporto tra deficit e Pil più alto di quello previsto dai patti, cioè l'1,8%, e il rinvio del pareggio di bilancio al 2018. Un po' di flessibilità in più rispetto a quella già concessa per circa 6 miliardi (e che rientra in pieno nelle regole Ue), per raggranellare altri 3,5 miliardi di euro.
Più che la caccia a un tesoretto, trovare altri soldi è una condizione imprescindibile (e nemmeno sufficiente) se il governo vuole realizzare tutte le cose annunciate. L'eliminazione della Tasi sulla prima casa, il taglio dell'Imu agricola e sugli imbullonati (cioè i macchinari industriali che oggi pagano l'imposta). Poi la riforma delle pensioni per rendere più leggero il sistema della legge Fornero e misure contro la povertà. Infine, le spese irrinunciabili, ma impreviste, come gli aumenti degli stipendi pubblici (impossibile bloccarli ancora dopo la sentenza della Consulta) e le missioni militari all'estero.
I conti parlano chiaro. Il governo ha già messo in cantiere tagli per dieci miliardi di euro. La famosa spending review i cui effetti sono peraltro tutti da verificare. Poi sei miliardi di flessibilità già concessa dall'Europa. Peccato che i margini di spesa in più riguardino investimenti concordati con la Commissione. Anche se si dessero per buoni i 16 miliardi, mancano all'appello come minimo nove miliardi per coprire la «Finanziaria» da 25 miliardi. Il governo spera di raggranellarli puntando le fiches su eventi tutti da verificare. Una maggiore crescita, quando molti già sollevano dubbi sulle previsioni ufficiali dell'Italia. Poi, minore spesa sugli interessi, quando i mercati finanziari internazionali sono tutt'altro che tranquilli. Infine, appunto, la disponibilità di Bruxelles ad accettare spesa pubblica fatta in deficit.
Ogni volta che qualche ministro si è azzardato a ipotizzare una Commissione in vena di regali, da Bruxelles sono arrivati degli stop. E niente fa pensare che questa volta andrà in modo diverso.
L'esecutivo Ue non commenta indiscrezioni come quelle uscite nelle ultime settimane. Ma è facile immaginare che, appena un esponente del governo ipotizzerà altra flessibilità, arriverà un altro altolà. Con buona pace del «patto» tra Merkel e Renzi. Che non esiste.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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